martedì 12 maggio 2015

La giostra degli scambi, 2015 - Andrea Camilleri

Si respira un'aria d'incertezza nella Vigata di Montalbano, un'aria a tratti limpida, carezzevole, a tratti putrida e pesante, che ti impedisce di ragionare bene, capire cosa non ci sia più, cosa sia cambiato. 
Siamo lontani dal miglior Camilleri, e su questo è difficile essere in disaccordo, con l'autore siciliano che ha dato la sua ultima graffiata ormai cinque anni fa, con La caccia al tesoro. Siamo lontanissimi dai capolavori (Il giro di boa; La pazienza del ragno), e altrettanto distanti dal melmoso, confusionario e tortuoso universo de La piramide di fango, pubblicato nel 2014. 
Con La giostra degli scambi, edito da Sellerio il 30 aprile 2015, Camilleri  mostra di credere sempre di meno a Montalbano, e sempre di meno al romanzo poliziesco. A differenza di alcuni titoli precedenti la storia scorre bene, è facilmente comprensibile e a tratti interessante -- anche se alcuni snodi narrativi ricordano quelli de Il gatto e il cardellino, racconto contenuto nella raccolta Gli arancini di Montalbano. Ma, come detto, l'autore sembra non avere più voglia di aggiungere niente ai suoi personaggi: Montalbano invecchia solo a parole, Fazio non fa altro che ripetere "già fatto", a Catarella scappa la mano quando bussa, Augello alterna momenti di lucidità a sprazzi da neo-Watson dall'intelletto bacato, e Livia appare in poco più di un paio di noiose e inutili telefonate. I personaggi, insomma, non evolvono più da anni, sono marionette che ripetono stancamente le stesse battute, si muovono nello stesso, invecchiato e intristito, palcoscenico. 
Un'aria di pesante inerzia narrativa aleggia su questo romanzo che, per carità, per noi appassionati è sempre bello gustare, ma stavolta manca anche un certo ampio respiro, una certa atmosfera. Ci sono poche descrizioni, pochi momenti di lirismo, tutto si snoda con pacata lentezza.
Anche se, alla fine, ciò che maggiormente mi infastidisce è il rapporto di amore-odio che Camilleri instaura con i modi del noir, o del romanzo poliziesco, o in qualunque modo vogliate chiamarlo: ha spesso ripetuto come per lui il genere sia poco più che una gabbia, deve scrivere capitoli della stessa lunghezza, seguire determinati precetti, non sfuggire alle regole. Ci sono non più di due personaggi in questa storia, due sospettati: se il primo sembra il colpevole per 2/3 del romanzo, non potrà che essere l'altro, alla fine, il vero assassino. Quando Camilleri capirà che il poliziesco è tutt'altro che un'insieme di regole scritte, forse, sarà troppo tardi.

martedì 5 maggio 2015

La Maison qui Tue (1932) - Nöel Vindry

La Maison qui Tue è il primo romanzo scritto da Noel Vindry, forse il massimo esponente della Golden Age del romanzo poliziesco francese. L'opera, mai più ripubblicata dopo la prima edizione del 1932, è stata finalmente riproposta in lingua inglese, tradotta da John Pugmire per la sua eccellente casa editrice, Locked Room International, con il titolo The House that Kills. Curiosamente il romanzo è uno dei pochi di Vindry pubblicati anche in Italia: uscì nel 1948 con l'ottimo titolo La villa dei cipressi, edito dalla Società Editoriale Italiana di Milano, con la traduzione, credo assolutamente non integrale, di Jacopo Mannozzi. 
Io non sono uno dei fortunati che ha avuto la possibilità di avere tra le mani l'edizione italiana, oggi rarissima e praticamente introvabile, e ho letto esclusivamente la versione inglese, sulla quale posso essere certo per ciò che riguarda accuratezza e professionalità: la traduzione di Pugmire ben si adatta ad uno stile, quello di Vindry, piuttosto semplice, ma scorrevole e piacevolissimo.
Noel Vindry, oggi praticamente sconosciuto al di fuori dei confini francesi, è in realtà uno dei grandi mystery writers europei degli anni Trenta: tra il 1932 e il 1937 scrisse dodici camere chiuse tra le più eccitanti e virtuosistiche dell'epoca, e non a caso venne definito da Thomas Narcejac "poète du roman problém". Assieme a Pierre Boileau, nel loro saggio dedicato alla narrativa poliziesca, i due fecero riferimento a Vindry sottolineando il suo incredibile virtuosismo e la sua capacità di ideare i puzzle più stupefacenti, a discapito, spesso, di una certa freddezza nella prosa.
Parlando esclusivamente di plot, dunque, in pochi possono rivaleggiare con il francese sul piano dell'ingegnosità: nei suoi romanzi si snodano infatti continue situazioni impossibili, risolte sempre con logica stringente e sublime agilità intellettiva.
Vindry, nato a Lione nel 1896, divenne juge d'instruction dopo il 1915 in un bellissimo paesino della Provenza, lo stesso luogo in cui si muove il suo investigatore, una sorta di alter-ego e pura macchina pensante, Monsieur Allou.
Allou esordisce in questo ottimo romanzo scritto e pubblicato nel 1932, anno eccezionale nella storia del mystery, che contiene ben tre situazioni apparentemente inspiegabili: il primo è un classico delitto di camera chiusa, il secondo un assassinio compiuto di fronte ad una folla di testimoni e nel terzo, solo tentato, la vittima è proprio Allou, colpito da un colpo di pistola nel proprio appartamento chiuso dall'interno.
Vindry mette già parecchia carne al fuoco, e dimostra di conoscere benissimo i classici, da Leroux, che amava moltissimo e riteneva l'emblema degli scrittori polizieschi, a Zangwill: se il secondo delitto è sin troppo arzigogolato e richiede qualche coincidenza di troppo, il primo è risolto con grande astuzia, e rappresenta un'eccellente variazione delle camere chiuse che campeggiano ne Il grande mistero di Bow e ne Il mistero della camera gialla.
Con Vindry possiamo effettivamente notare le differenze, numerose, che intercorrono tra i francesi e gli anglosassoni: qui l'interesse è quasi esclusivamente nel plot, nelle falde magmatiche del rompicapo e nel modus operandi dell'assassino, la cui identità, come spesso accade, è piuttosto semplice da individuare. Non whodunit dunque, ma howdunit
La prima parte, dove si respira un'atmosfera inquietante, è la migliore del romanzo, ma anche la seconda risulta piacevole, perciò non sono troppo d'accordo con Fooz, Bourgeois e Soupart che sostengono, nel loro volume Chambres Closes, Crimes Impossibles (1997), come il ritmo cali vertiginosamente dopo l'attentato all'investigatore.
La Maison qui Tue, dunque, pur non arrivando a quelle memorabili vette tecniche che l'autore raggiungerà in La Bête Hurlante (1934) e in À Travers le Murailles (1936), è un ottimo romanzo d'esordio, assolutamente da non perdere. Chissà che le nostre case editrici, tra una porcheria e l'altra, non decidano anche di offrire della buona letteratura d'intrattenimento.