venerdì 24 luglio 2015

The Cask (1920, I tre segugi) - Freeman W. Crofts

La parola “humdrum”, letteralmente “noioso”, appare per la prima volta in The Cask dopo ben 219 pagine. Freeman W. Crofts non lo sapeva che quella parola lo avrebbe contraddistinto per sempre. È noto infatti come il critico Julian Symons, nel suo Bloody Murder (1972) abbia definito “noiosa” la narrativa poliziesca di Crofts, alla stregua di quella di John Rhode, J.J. Connington ed altri scrittori britannici della Golden Age. Symons aveva probabilmente letto poco di Crofts, ma il suo tranciante giudizio ha infangato per anni la carriera di questo brillante scrittore. È solo del 2012 infatti il saggio The Masters of Humdrum Mystery, testo in cui Curtis Evans ha riscoperto il corpus di Crofts (insieme a Rhode e Connington), mettendo in luce la straordinaria importanza che questi autori hanno avuto nell’evoluzione del genere.
Freeman W. Crofts, su tutti, è una figura capitale nella storia del mystery. Irlandese, di professione ingegnere (lavorò nelle ferrovie), scrisse The Cask, il suo romanzo d’esordio, nel 1916, durante un periodo di convalescenza da una malattia. Solo nel 1919 però decise di inviarlo alla casa editrice Collins, la più importante in Inghilterra in quel periodo. Dopo una lieve sforbiciata (il processo in tribunale), il romanzo venne pubblicato nel 1920 e ricevette immediatamente un successo di critica e pubblico eccezionale. 
Per una bizzarra coincidenza, un altro romanzo scritto qualche anno prima (intorno al 1915-1916), venne pubblicato nel 1920: The Mysterious Affair at Styles, di Agatha Christie. Non è un caso che la critica faccia riferimento al 1920 come l’anno d’inizio della grandiosa Golden Age della detective fiction: da una parte c’è l’introduzione del detective eccentrico, Hercule Poirot, alle prese con un classico country-house mystery in cui si celebra l’epoca Edoardiana; mentre dall’altra Crofts scrive quello che sostanzialmente è un police-procedural, in cui tre diversi personaggi (due poliziotti e un detective privato), investigano sull’assassinio di una donna, trovata strangolata all’interno di un barile pieno di monete. 
Questa distinzione tra i due testi è alquanto rozza, e non rispecchia le differenze reali. Il romanzo della Christie è il trionfo del bizzarro e dell’eccentrico: sono bizzarri e ambigui i personaggi (Poirot su tutti), lo è la storia stessa, così come gli indizi, tutti velati da false piste. Il modulo della Christie, per certi versi, è anti-realista. Quello di Crofts, al contrario, è iper-realista. Da Crofts si va a scuola di detection, quella vera, condotta da esperti, poliziotti di professione metodici, umani e anche fallibili. Infatti nessuno dei tre “segugi”, a ben vedere, è in grado di rispondere completamente alle tante domande che emergono dalla trama: è lo stesso assassino che confessa, prima del colpo di scena finale.
Ecco allora la grande differenza tra i due autori: la Christie si diverte a creare il suo microcosmo di personaggi, a farli agire bizzarramente, a creare situazioni al limite dello stridore, a giocare con il lettore, fargli credere di sapere, sfidandolo continuamente. In Christie è tutto gioco, sinuoso e complicatissimo. In Crofts è tutto il contrario: l’autore ricrea magnificamente il suo tempo, senza però soffermarsi troppo nella creazione dei personaggi, anche se resta bello vedere come rappresenti Parigi con gli occhi di un inglese anni Venti, con tutti questi personaggi gentili, disponibili ed educati. In Christie c’è unità di tempo e spazio, tutto è visto dagli occhi distorti di Hastings, il narratore spalla di Poirot. Crofts invece cambia continuamente location (Londra, Parigi, Bruxelles), modifica registro stilistico, sceglie tre investigatori che lavorano sul medesimo caso, facendo ad ognuno scoprire qualcosa di diverso. La Christie deve molto a Edmund Bentley, mentre Crofts attinge a Richard A. Freeman, a cui aggiunge ricchezza di dettagli e metodo 
Non c’è nulla di teatrale, di artificioso, di insolito in Crofts. Occorre studiare i movimenti dei personaggi, interrogare i sospettati, analizzare orari di treni, di aerei e di navi; occorre, soprattutto, smontare un alibi di ferro. Ed è questo quello che Crofts fa meglio di tutti: creare ad hoc un alibi a prova di bomba, che l’investigatore di turno deve smembrare col ragionamento. 
The Cask non è, nemmeno lontanamente, un whodunit, perché a nessuno interessa sapere chi sia davvero l’assassino (ci sono solo due sospettati), e non è nemmeno un howdunit, mancando delitti o situazioni impossibili. È invece un romanzo di pura detection, perfettamente elaborato, divertente ed eccitante nonostante il volume (oltre 320 pagine). Certo, a tratti può apparire leggermente old-fashion, e l’autore non manca di dilungarsi in passaggi che oggi possono sembrare poco utili, ma non ci si annoia mai, e tutto concorre alla creazione di un meccanismo quasi perfetto. È un romanzo accurato, persino nella ricreazione di un certo “parlato” dei personaggi, pieno di dettagli, ben scritto e intrigante. Non è un caso che molte opere di Crofts stiano ricominciando a essere ristampate in Inghilterra, e con ottimo riscontro di pubblico. 
The Cask, in conclusione, è una pietra miliare nella storia del genere. Quando l’ “ingegnosità”, per fortuna, era ancora qualcosa di cui vantarsi.

domenica 5 luglio 2015

Il Canone Holmesiano - Parte 4

The Hound of the Baskervilles

La fama che circonda questo romanzo ha assunto, nel corso del tempo, dimensioni gigantesche. Chi non conosce il più famoso romanzo di Doyle e la più celebre impresa di Holmes, sia esso in forma romanzo, adattamento cinematografico o serie televisiva. Si è parlato a lungo di questo testo, ma credo che ci sia ancora molto da scavare all'interno di questa incredibile opera letteraria.
È noto come e soprattutto perché Doyle decise di riesumare il personaggio di Holmes, di cui aveva provato a liberarsi qualche anno prima (ma nessuno aveva mai trovato il suo cadavere, ripeteva sempre l'autore); ma lo fa a modo suo, retrodatando l'avventura, e proponendo al lettore una storia dai toni molto differenti rispetto ai romanzi precedenti, intrisa di morte, pazzia, violenza e paura verso l'ignoto.
L'intero romanzo è impregnato di degenerazione, quella sindrome che da biologica si era ormai tramutata in storica, e che caratterizzava il criminale e il deviato secondo la contemporanea scienza antropologica. C'è tutto in quest'opera: delinquenti atavici, regrediti a stadi precedenti alla civiltà, i temi dell'ereditarietà e del libero arbitrio, la paura verso la regressione che le teorie di Darwin avevano sollevato, temi e tonalità gotiche che si intrecciano a strutture da detective story, senza arrivare ad una vera e propria soluzione. 
Michael Dirda, in un recente saggio su John Dickson Carr, ha  aperto descrivendo cosa si prova leggendo questo romanzo, con la sua atmosfera inquietante, da brivido, le superbe descrizioni della brughiera, il clima di morte e follia che aleggiano dalla prima all'ultima pagina, e che ritroviamo solo nell'opera del grande JDC, l'unico che ha plasmato l'arte di Doyle per poi condurla a vette inarrivabili. Questo romanzo ha, ad ogni rilettura, qualcosa in più da raccontare: è un romanzo gotico o un testo poliziesco, si sono chiesti alcuni critici, e la risposta è sempre stata parziale, sfumata. 
Michael Cook ha dedicato pagine importanti a questa problematica, come emerge in Detective Fiction and the Ghost Story (2014), ma mi piacerebbe citare anche un eccellente articolo di Nills Clausson, del 2005, intitolato Degeneration, Fin de Siècle Gothic and the Science of Detection. Lo studioso mette molta carne al fuoco, e spesso sono in accordo con le sue conclusioni: ad esempio l'idea che Watson racconti una storia gotica, mentre Holmes si vanti di scriverne una poliziesca, che altro non è se non la soluzione del mistero gotico. C'è un conflitto, inevitabile, nei toni, nelle strutture e nelle finalità di questi due generi letterari, che nel degenerato e complesso Fin de Siècle subiscono una ridefinizione e dei mutamenti ancora non ben compresi dalla critica.
Lo scontro tra il buio delle tenebre della brughiera e la luminosità della ragione holmesiana finisce per confondersi in una melma dai colori indistinti, la scienza positivista ha da tempo lasciato la mente di Doyle, che si interroga sul male e sulla violenza dell'uomo, sulla vita e la morte. E, alla fine, se al "problema poliziesco" vi può essere una risposta, pur vaga, al resto, incarnato dal dramma gotico, non c'è spiegazione. La tensione tra razionale e sovrannaturale è centrale nell'evoluzione del mystery, e Il mastino dei Baskerville ben spiega perché Fin de Siècle-Gothic e detective fiction abbiano radici all'interno dello stesso genere letterario, il romanzo gotico tradizionale. Nel Novecento i generi prenderanno strade diverse, ma il germe dell'ereditarietà, si sa, non lascia scampo.
Dare una definizione qualitativa al romanzo lascia il tempo che trova: mi limito a dire che è tra i più grandi romanzi del Novecento e certamente il capolavoro di Doyle.