sabato 28 giugno 2014

Jack in the Box - Jonathan Creek S01 E02 - 1997

Se David Renwick fosse vissuto negli anni Trenta avremmo avuto un altro Clayton Rawson o un altro Noel Vindry. Sceneggiatore TV, Renwick non ha mai scritto un romanzo poliziesco; ed è un vero peccato, perché siamo indiscutibilmente di fronte al più grande inventore di Camere Chiuse e Delitti Impossibili vivente, un uomo di sfrontata genialità che con la serie Jonathan Creek, in onda dal 1997, ha ideato alcune delle trame più innovative nel campo della Detective Story dei nostri tempi.
Non bisogna dimenticare che ha anche lavorato ad alcuni episodi del Poirot interpretato da David Suchet.
Quello che più separa Renwick da un Halter è l'ambientazione contemporanea delle sue storie: in un'era iper tecnologica come quella contemporanea è assolutamente più complicato creare situazioni impossibili da risolvere razionalmente, ed è per questo che quasi tutti gli altri si limitano al giallo storico.




                          



Jonathan Creek è una serie televisiva britannica della durata di 60' (escluso l'episodio pilota, che dura 90') in cui il protagonista, giovane assistente di un illusionista - sostanzialmente colui che gli prepara i trucchi - risolve delitti impossibili.
Dopo un primo episodio di grande livello - forse un po' complesso e tortuoso, ma sempre spettacolare - al secondo tentativo Renwick si dimostra al meglio di se stesso. Un vecchio attore comico viene ritrovato ucciso da un colpo di pistola alla tempia all'interno di un rifugio antiatomico a oltre 10m sotto terra, con due porte blindate chiuse dall'interno assolutamente impossibili da aprire da fuori. L'uomo impugnava una pistola, e per questo sembrerebbe un suicidio. Ma com'è possibile, visto che l'anziano aveva da tempo una forma di artrite deformante tale da non poter né tenere una pistola in mano né chiudere la porta? Gli indizi sono una lampadina da 40 watt contenuta in una scatola da 100 e un wc incellophanato ancora da installare.
Jack in the Box è una magistrale rappresentazione dell'onnipotenza dell'ingegno umano applicato al poliziesco, con una soluzione - a quanto sembra, usata qui per la prima volta - di una genialità semplicemente disarmante. Sorprende il giudizio di Lacourbe, che in 1001 Chambres Closes Annexes  si limita a un giudizio relativamente basso (***) rispetto alla media degli episodi; perché questo secondo episodio è davvero pazzesco.
Purtroppo non esiste in italiano, ma nella verdone dvd sono ovviamente disponibili i sottotitoli in inglese. Da non perdere per nessun motivo al mondo.

sabato 21 giugno 2014

La piramide di fango (2014) - Andrea Camilleri



Io amo Andrea Camilleri. So che non è una opinione particolarmente condivisa, ma credo che in certi momenti valga Simenon, e alcuni romanzi (Il giro di boa o La pazienza del ragno, per rimanere al ciclo Montalbano) penso raggiungano vertici di lirismo ineguagliati.
Certo, l'enigma poliziesco non esiste, ma nessuno legge Camilleri per le sue trovate geniali, né assapora Simenon per i suoi intrecci. C'è però qualcosa di magico in questo autore, qualcosa che ci fa innamorare di lui e dei suoi personaggi, che ci spinge a girare le pagine, a divorare romanzi su romanzi, a gioire e piangere con lui. Salvo, Mimì, Catarella, Livia, Fazio e il dottor Pasquano, per citarne alcuni, sono entrati nell'immaginario collettivo di tutti noi. Camilleri scrive meravigliosamente bene: la sua Sicilia, realistica o immaginaria che sia, vive nelle sue pagine, pulsa, risalta, i personaggi si muovono e crescono con noi, con le loro idiosincrasie e i loro tormenti.
E per quanto i suoi intrecci polizieschi non siano straordinari, Camilleri rimane il maggior autore italiano vivente, e non di poco. 
E' quindi piuttosto triste mettersi ad analizzare un romanzo come questo. Dopo qualche prova incolore ma comunque godibile (Una lama di luce, su tutti), La piramide di fango rappresenta un deciso passo indietro sotto tutti i punti di vista: crepuscolare nel senso negativo del termine, emana una sensazione di inusuale piattezza narrativa, con personaggi sempre uguali a se stessi che non sorprendono più, muovendosi pesantemente in una storia troppo ingarbugliata e troppo lenta. 
Ho sempre amato la lingua di Camilleri, questo miscuglio stupendo che è ancora il punto di forza del suo stile; ma stavolta la spinta verso un siciliano sempre più prepotente rischia di acuire i difetti e affaticare il lettore.
Camilleri ha ancora molto da dire, ma nella saga Montalbano c'è bisogno di una sferzata e di un radicale cambio di rotta, se non si vuole affrontare questo triste, ma inevitabile, declino. 
Montalbando sta ripiegando su se stesso. Non permettiamolo.



lunedì 16 giugno 2014

The Third Bullet (Il terzo proiettile, 1937) - John Dickson Carr





The Third Bullet è probabilmente uno dei meno conosciuti e nello stesso più mirabolanti lavori usciti dalla penna di John Dickson Carr. 
Un "capolavoro sperimentale" ripete spesso Roland Lacourbe, che nel saggio sull'autore mostra tutta la sua ammirazione. E sperimentale è il termine giusto, perché con questo romanzo breve Carr conduce il Whodunit a un tale livello di ingegnosità e vertigine intellettuale dal quale appare impossibile tornare indietro. 
Carr, per la prima volta, in un periodo straordinariamente fecondo della sua vita, decide di rispettare interamente le celebri 20 Regole stilate da Van Dine: niente descrizioni, caratterizzazioni o atmosfera, ma solo esposizione dei fatti, del problema poliziesco. E che problema! 
Il giudice Mortlake è un uomo integerrimo, ma clemente e mai eccessivamente severo nelle condanne; forse è più rigido verso la propria famiglia e le proprie figlie, Ida e Carolyn. Perché allora ha  scelto una pena corporale così terribile (15 frustate, oltre a i lavori forzati) per Gabriel White, giovane reo di aver malmenato pesantemente una tabaccaia a scopo di rubare una somma misera e un pacchetto di sigarette? Forse perché il ragazzo era innamorato della figlia? 
Quello che è certo è che dopo la condanna in tribunale, White insulta pesantemente il giudice, minacciando anche una possibile vendetta. Un giorno la figlia del giudice, Ida, incontra per caso il ragazzo e lo trova su di giri, spavaldo, che le assicura che sarebbe andato a uccidere il padre. 
Lei lo conosce, inizialmente non lo prende sul serio, ma poi viene presa dal panico e quando torna a casa avverte la polizia: "accorrete, White vuole uccidere mio padre". Così la polizia corre alla villa del giudice; questi si trova all'interno di un padiglione-studio in mezzo al parco, circondato da grandi alberi. La giornata è tempestosa, piove forte, ci sono fulmini e lampi. Quando i due funzionari si avvicinano al padiglione  vedono da lontano la figura di White mentre sta girando la maniglia della porta, pronto ad entrare. Si lanciano all'inseguimento ma White fa prima di uno dei due poliziotti e chiude la porta a chiave. 
L'altro, intanto, sta correndo verso la finestra aperta quando sente due colpi di pistola, a pochissima distanza l'uno dall'altro. 
Nel momento in cui entra nella stanza trova il giudice morto, colpito al cuore e riversato sulla cattedra, e White con una pistola calibro 38 in mano, mancante di un solo colpo. Nessun altro si trova all'interno, le finestre sono sprangate e alcune talmente vecchie da risultare impossibile l'apertura. Eppure si sono sentiti due colpi. Eppure, in un vaso profondo in fondo alla stanza sigillata viene trovata una calibro 32, con vicino il bossolo. Il colpo sparato da quella pistola ha colpito un albero di fronte al padiglione. Quello della calibro 38, invece, è trovato conficcato sulla parete del muro. Eppure la pallottola che ha ucciso il giudice è quello di una calibro 22, di piccole dimensioni e  molto silenziosa, sparata a 3 metri di distanza circa. Ci sono troppi eppure, in questa storia.
Ma se la 22 non è nella stanza, la 38 ha sparato un solo colpo che si trova nel muro e dalla 32 ne è uscito un terzo, trovato nell'albero, com'è possibile? Due colpi uditi, tre proiettili. 
Un plot semplicemente superbo, di rara complessità tecnica, che si avvale di una quantità di indizi (anche fisici, in questo caso) che fanno semplicemente girare la testa. 
Stilisticamente può apparire meno conciso e perciò meno perfetto dei successivi racconti con protagonista il Colonnello March (che in The Third Bullet non c'è, ma quasi), però questo è da ritenersi dovuto alla lunghezza intrinseca di un testo che contiene un intreccio irrealmente elaborato.
Il tripudio di impossibilità a volte mostra qualche machiavellismo troppo ardito, ma l'insieme è di una bellezza stordente. 
Come scrive Douglas Greene, questa è "a novella written the Carter Dickson name for a short-lived paperback series called New-at-Ninepence, published in 1937".
Ma dopo questa pubblicazione il testo viene sostanzialmente dimenticato. 



Nel 1946 Frederic Dannay (la metà di Ellery Queen) chiede a Carr di poter pubblicare il racconto nel numero di gennaio 1948 della rivista Ellery Queen's Mystery Magazine. L'autore americano, che non aveva più da tempo una copia originale del volume, non solo concede l'ok a Dannay di abbreviare la novella, ma quasi lo pretende: "Look here, don't you think you had better do a lot of cutting in The Third bullet? I haven't seen the story since I wrote it; but I remember being uncomfortably verbose in those days", dice Carr a Dannay. E così il testo viene ridotto del 20% circa e pubblicato sotto il nome John Dickson Carr.
Secondo la maggior parte della critica, questo taglio avrebbe pesantemente abbassato il livello qualitativo del testo, con soppressione di indizi, false piste e descrizioni, tanto che Barzun & Taylor (che apprezzano quasi esclusivamente la produzione breve dell'autore) lo definiscono "told without vim".  
Il problema in questo caso rimane l'assoluta rarità della versione originale: quando nel 1954 Carr decide di pubblicare la raccolta di racconti The Third Bullet and Other Stories, solamente la versione accorciata è disponibile. Solo nel 1991, con la pubblicazione del volume (tra le altre cose molto raro) Fell and Foul Play, curato da Douglas Greene, il testo è stato reso disponibile per la prima volta dopo anni in versione integrale. Nel 2007 Roland Lacourbe lo ha pubblicato interamente nell'eccellente volume Mystères à Huis Clos. E in Italia? Da noi purtroppo circola ancora la versione accorciata, riproposta dalla Polillo Editore nel 2007 in Delitti della camera chiusa.
La mia opinione è che il racconto, al di là delle opinioni di vari critici, sia straordinario anche nella versione più breve (di circa 80 pagine contro le oltre 100 di quella integrale). In ogni caso spero di vederlo presto ripubblicato interamente, con buona pace al Maestro, che lo considerava troppo verboso.
Se qualcuno voglia saperne di più, a lettura ultimata, può leggere comodamente questo eccellente articolo di Pietro de Palma, che espone la sua visione metacritica del testo: http://blog.librimondadori.it/blogs/ilgiallomondadori/2010/07/23/vive-le-roman-policier-metacritica-di-“the-third-bullet”-di-john-dickson-carr/
E "Vive le Roman Policier", ovviamente.

mercoledì 4 giugno 2014

Trent's Last Case (La vedova del miliardario, 1913) - E. C. Bentley

Uno dei più importanti romanzi polizieschi anteguerra nasce per divertimento.
E. C. Bentley pubblica quest'opera per far felice l'amico, ed ex compagno di studi, G. K. Chesterton, che al tempo stava dando vita alle avventure di Padre Brown. Non si può negare il fatto che Trent's Last Case sia una sorta di divertissement, più una piccola parodia dei romanzi di Conan Doyle che un exemplum ideale del genere poliziesco: il detective dilettante Philip Trent, chiamato dal suo giornale a indagare sull'omicidio del ricco e odiato magnate della finanza Sigsbee Manderson, è intelligente ma non infallibile, non solo è incapace di arrivare alla soluzione del delitto ma per di più si innamora di una delle principali sospettate, l'incantevole moglie del defunto, Mabel Manderson. È chiara l'influenza su Trent del detective Eugène Valmont, protagonista di otto racconti nella celebre raccolta pubblicata da Robert Barr ad inizio secolo, The Triumphs of Eugène Valmont (I trionfi di Eugène Valmont, 1906).




Questo romanzo, pur conservando l'ingenuità di certi esperimenti letterari puramente estemporanei (Bentley pubblicherà un sequel solamente nel 1936 e e una manciata di racconti nel 1938), possiede la forza e la capacità di anticipare tematiche, espedienti e situazioni che diverranno tipici nella tradizione della British detective novel: il ricco e odiato magnate assassinato prima che il libro abbia inizio, la villa di campagna come ambientazione, il giornalista-detective dilettante pronto ad indagare, una serie di indizi disseminati e una soluzione sorprendente, tutto presentato attraverso una prosa garbata e ironica. 
Basta pensare a The Rasp (Campana a morto, 1924), romanzo d'esordio da poco recensito di Philip MacDonald, per accorgersi nelle infinite influenze giocate da Bentley: il medesimo prologo all'interno di una testata giornalistica, lo stesso investigatore giornalista che si innamora di una delle sospettate (anche se in The Rasp la sua innocenza è certa a priori) e tanto altro.
Lo stile di Bentley è  gradevole, leggero, ironico e a tratti incantevole. La sua è una penna profondamente arguta e acuta, piena di umorismo e classe, anche se manca della tagliente e affilata capacità dell'amico Chesterton di giocare con situazioni e paradossi senza perdere di un millimetro in lucidità espositiva. Bentley è più affusolato, la sua ironia è meno caustica  e meno polemica, la sua scrittura meno concisa anche se strutturalmente perfetta, e ancora oggi, a oltre cento anni di distanza, perfettamente godibile.
Lo scrittore britannico ha l'involontario merito (non in senso valutativo) di rompere definitivamente con la tradizione del sensation novel ottocentesco, depurandolo dagli elementi più eccessivi e aprendo la strada al poliziesco a enigma basato sul fair-play-puzzle, come sostenuto anche da Thomas Narcejac. Lo scherzo diventa narrazione, dice un po' approssimativamente Giuliano Gramigna, ma non a torto, perché dopo Trent's Last Case il genere non è più lo stesso. Se sia stato Chesterton per primo, oppure Bentley, a preparare il terreno per il gioco leale tra lettore e scrittore in un racconto giallo è piuttosto complicato dirlo con certezza, ma resta il fatto che il momento storico decisivo per questa trasformazione è quello che immediatamente precede il primo conflitto mondiale.




Il critico Howard Haycraft riteneva che questo romanzo rappresentasse un fondamentale trait d'union tra la Romantic Era e la Golden Age del romanzo poliziesco, che qualche anno dopo troverà prima espressione con la pubblicazione, nel medesimo anno, di The cask (I tre segugi, 1920), di F. W. Crofts, e The Mysterious Affair at Styles (Poirot a Styles Court, 1920), di Agatha Christie. Dopo Bentley è come se gli autori avessero una nuova consapevolezza della differenza, sino ad allora sfocata, tra mystery e mero romanzo del mistero.
La critica contemporanea ha smorzato, in parte, gli entusiasmi di Haycraft: già Carr, in The Greatest Game in the World (1946) riteneva che Bentley fosse arrivato ben dopo altri Maestri (Chesterton, Freeman, Mason), ma in generale il favore verso questo testo è andato scemando.
Siano state le critiche di Chandler nel suo celebre saggio oppure le ingenuità narrative in esso contenute non lo so, ma resta il fatto che nei saggi critici recenti l'opera compare molto meno (per fare un esempio, nella lista stilata da Keating dei 100 più grandi polizieschi di sempre, alla fine degli anni Ottanta, Bentley incredibilmente non appare). E pensare che Sayers, Christie e lo stesso Chesterton impazzirono per questo romanzo, definendolo uno dei più belli mai scritti.
Sul fatto che ci si diverta, non c'è dubbio, in questo eccitante tour de force del raggiro, dell'inganno, del trabocchetto e delle sorprese. Restano le incongruenze, ovviamente: caratterizzazioni poco consistenti, personaggi importanti che scompaiono senza motivo (il poliziotto Murch), qualche espediente un po' tirato per i capelli e una certa verbosità in alcuni passaggi cardine. Ma l'intero enigma è astuto, gli indizi sono intriganti, le soluzioni (eh si, ce ne sono di più, una delle quali influenzerà Carr per The Ends of Justice) assolutamente spettacolari.
Non male, per un romanzo nato per divertimento.