giovedì 24 aprile 2014

The Egyptian Cross Mystery (Il mistero delle croci egizie, 1932) - Ellery Queen




Nei dintorni della desolata Arrojo, un paesino della Virginia occidentale, il giorno di Natale, viene ritrovato il cadavere di Andrew Van, eccentrico maestro di scuola, decapitato e crocefisso a un cartello stradale, in modo da formare una enorme T.
Ellery Queen assiste al processo, ma l'intera storia appare del tutto assurda e incoerente, perciò è costretto a tornarsene mestamente a casa, senza aver risolto nulla.
Circa sei mesi dopo, un suo ex docente, il professor Yardley, che ora vive a Long Island, lo invita a recarsi da lui: il cadavere di Thomas Brad, imprenditore e milionario del posto, è stato ritrovato decapitato e crocefisso a un Totem Indiano. 
Cosa lega due omicidi così efferati, avvenuti a centinaia di chilometri di distanza? Forse il nome di un pazzo assassino in cerca di vendetta: Velja Krosac. L'incubo, per Ellery, inizia da qui.
Al quinto romanzo a firma Ellery Queen (escludiamo, per semplicità, la tetralogia Barnaby Ross), Dannay e Lee sembrano dare una repentina quanto decisiva sferzata al modo di concepire il mystery. Se i primi tre romanzi rappresentano sostanzialmente un apprendistato ancora vandiniano, e con The Greek Coffin Mystery (L'affare Khalkis, 1932) il concetto di "enigma deduttivo formale" viene portato a conseguenze di virtuosismo tecnico sino ad allora inimmaginabili, è con questo The Egyptian Cross Mystery che Dannay e Lee si apprestano definitivamente ad uscire dalle sfavillanti maniere di Van Dine. Quello che i due autori aggiungono, da subito, è una maggiore freschezza letteraria, rinunciando a uno stile più magniloquente ed elaborato per uno più sciolto e gradevole, ma anche una migliore tenuta tecnica degli intrecci, una maggiore capacità di evocare atmosfere e costruire personaggi, oltre a un rigore logico più solido, meno legato alla componente psicologica.
Questo romanzo è però un unicum nel fortunato Primo Periodo Queeniano, ma pone le basi per un cambiamento che sarà tale solo dal 1936-1937.
Ellery è per la prima volta solo, lontano da New York, dal padre Richard, da Djuna e dai suoi cari. C'è il suo vecchio amico docente, un professore dotato di raziocinio e capacità deduttive, con il quale spesso si confronta, ma non è il solito Ellery: si sente mentalmente solo, impotente di fronte allo scempio e alla profanazione priva di senso del corpo umano, chiuso in se stesso evita le solite citazioni colte o le digressioni erudite, ripete spesso di sentirsi inerme, incapace di trovare un raggio di luce in questo enigma sconvolgente. Se quest'opera è così impregnata di sangue e morte, spiega acutamente Francis Nevins, è perché questo orrore fisico serve ad illustrare le analogie tra la vendetta Tvar-Krosac e l'equivalente nel macrocosmo, la Guerra. Anche per questo, forse, il macabro non si unisce mai al soprannaturale.
Gli elementi alla base del movente dell'assassino (così vaghi, così banalmente raccapriccianti), sono i resti abortiti di quello che poteva diventare un romanzo di denuncia della Guerra [1]. Non c'è qui la Guerra, ma la sua conseguenza più immediata, la morte, regna incontrastata.
Le atmosfere crepuscolari si respirano quasi con il fiato corto: Queen inizia a studiare le diverse reazioni, di fronte al Male più incomprensibile, di due comunità completamente differenti tra loro, come farà, con ancora maggiore piglio, in Cat of Many Tails (Il gatto dalle molte code,  1949). L'interessante ritratto d'ambiente è un punto di partenza fondamentale per la futura creazione della città di Wrightsville, microcosmo preciso e impietoso della omertosa civiltà americana, al centro di molti romanzi successivi. 
Ciò che colpisce di più, di The Egyptian Cross Mystery, è questo allontanamento graduale ma implacabile dallo schema del Whodunit: di facciata, va notata certamente la presa di posizione sin dall'introduzione, in cui Dannay e Lee prendono le distanze dal frequentatissimo tema egittologico nel poliziesco (da Freeman a Van Dine), ma in profondità si respira un'aria opprimente, acuita da atmosfere di morte e pazzia quasi surrealistiche, che richiamano certe dolenti immagini di Bosch. 
La gestione della tensione narrativa è esemplare: a tratti esasperante, si allenta per poi ripercuotersi vertiginosamente, sino ad una palpitante caccia all'uomo finale. 
Questo non potrà mai essere un semplice Whodunit: le deduzioni logiche di Ellery sono poche, gli indizi non abbondano, i sospettati sono oggettivamente in numero ridotto, ma è evidente come tutto questo agli autori interessi meno del solito. Sembra paradossale, ma da un punto di vista prettamente tecnico, ci sono più imperfezioni di logica qui, in cui la trama ha maggiore linearità, rispetto ad un romanzo come quello precedente, in cui tenere le fila diventava più difficile di guidare un'astronave. 
Certo il movente balla pericolosamente tra il cervellotico e il geniale, ma il vero punto debole è quello che Nevins chiama Centro Vacuo: questo avviene quando una parte dei maneggi e degli intrighi che occupano i capitoli intermedi, risultano troppo marginalmente collegati alla trama centrale, e quando si susseguono una quantità di false piste che sono troppo semplici da individuare come tali. Questi difetti, qui mascherati dal ritmo e dall'atmosfera, sono ancora più netti nel successivo The Chinese Orange Mystery (Il delitto alla rovescia, 1934), altro controverso romanzo del Primo Periodo.
Ma la sensazione di pathos ed emozione che ci spinge a girare furiosamente le pagine, deriva anche (è ovvio, se parliamo di Ellery Queen) da un'enigma straordinario, in cui gli indizi si accavallano intensamente (la partita a dama di Thomas Brad), sino all'ultimo, nel capitolo che precede la Sfida al Lettore, semplicemente uno dei più diabolici mai escogitati nell'intera storia del mystery. 
La soluzione, partendo dal fatto di essere mentalmente negli anni Trenta, è un esempio perfetto, ma onesto, di mistificazione: è come se ci accorgessimo di aver indossato una maschera, o di aver guardato continuamente dalla parte sbagliata. Questa sarà una lezione per la penna di molti, da quella di Thomas Harris a quella martellante del geniale J. T. Rogers, in The Red Right Hand (La rossa mano destra, 1946). Se lì c'è il terribile Cavaturaccioli, qui c'è Velja Krosac, il quale non può non ricordare, per assonanza, provenienza e facilità di esecuzione, Keyser Soze, il genio criminale al centro del folgorante esordio registico di Bryan Singer, The Usual Suspects (I soliti sospetti, 1995).
Un romanzo da leggere e rileggere, nelle sue imperfezioni e nei suoi straripanti strappi di tensione, con grande inquietudine, solo ed esclusivamente nella traduzione di Gianni Montanari.
Il resto, è da buttare.

1 F. Nevins, Royal Bloodline, 1974, trad. it. Gianni Montanari in Agenzia Investigativa Ellery Queen, 1984, p. 10

giovedì 17 aprile 2014

The Benson Murder Case (La strana morte del signor Benson, 1926) - S. S. Van Dine





Quando Willard Huntington Wright, vero nome sotto il quale si cela S. S. Van Dine, decide di lasciar perdere la scrittura di un trattato teorico sul poliziesco, preferendo dedicarsi a un ciclo di romanzi, non sa, probabilmente, che sta scrivendo la Storia.
Nel 1926, il poliziesco "moderno", negli Stati Uniti, sostanzialmente non esiste. Ci sono validi artigiani, qualche ragazza più brillante, ma i capolavori, quelli si trovano da un'altra parte.
Nel giro di qualche anno Van Dine "inventa" il genere negli Stati Uniti: Ellery Queen, Rex Stout, Anthony Abbot, Rufus e C. D. King e tanti altri autori americani, cavalcano con successo la sua onda, dando una sferzata decisiva a un genere che, dall'altra parte dell'Oceano, stava ripiegando su stesso, destinato a una breve ma non indolore morte. 
E poi c'è lui, Philo Vance, il più dandy, il più meravigliosamente misantropo, il più geniale di tutti.
Dopo 5 minuti ha già capito chi ha ucciso Benson, e in che modo. Non c'è gusto, così.
Difficile calcolare la portata delle innovazioni di Van Dine, occorrerebbe un trattato. Non mi riferisco ovviamente a quella buffonata delle Venti Regole, ma ai meccanismi, polizieschi, tecnici e retorico-stilistici, che stanno alla base dei suoi romanzi. Non la pensa così Anthony Boucher, forse il più grande dei critici, che in numerosi articoli usciti sul San Francisco Chronicle, ha più volte ridimensionato, con forza, l'importanza storica di Van Dine.
Va detto che oggi, la figura di questo autore è più che mai bistrattata: inverosimile, irreale, freddo, teatrale, antipatico. Roland Lacourbe, nel volume 1001 Chambres Closes, lo definisce pretestuoso e indigesto al lettore contemporaneo, e afferma, in un testo precedente, come sia impossibile vedere i suoi testi ristampati.
Forse in Francia, dato che in Italia, tra Mondadori, Polillo, Rusconi, Newton e Barbera, le case editrici sembrano contendersi le opere dell'autore americano.
La mia opinione è che Van Dine, nel suo breve corpus, abbia davvero cambiato il modo di concepire e pensare il poliziesco. Se certi meccanismi, certe teatralità e alcune situazioni possono apparire oggi eccessivamente caricate, quindi paradossalmente fredde, Van Dine ha insegnato a gestire il plot e i suoi elementi in modo nuovo, ha mirabilmente fuso erudizione e suspense, cultura e tensione narrativa. I suoi romanzi migliori sono trionfi di tecnica, classe e stile. 
Non lo è, nemmeno lontanamente, questo romanzo d'esordio.
Incomprensibilmente definito "il primo e il migliore", da Barzun e Taylor, è in realtà il più noioso, fastidioso e maledettamente lento romanzo dell'autore. Costruito dignitosamente dal punto di vista dell'intreccio (anche se la trama resta poca cosa), frana in una suspense che evapora dopo due capitoli, in una storia priva di verve, di spunti e di sprazzi d'autore. Perché? 
Perché non fa altro che seguire pedissequamente le sue famose Venti Regole. Così quello che resta, sono una magra e agonizzante storia poliziesca, qualche personaggio tristemente abbozzato e una totale mancanza di descrizioni e atmosfera. Non fosse per le meravigliose digressioni di Vance, riguardo i più disparati argomenti del globo, dal golf alla medicina, dalla logica alla craniologia all'architettura, si fatica ad arrivare alla fine.
Modellato su Lord Peter Wimsey, Vance è l'anti-Holmes per eccellenza: preferisce le buone maniere alla giustizia, cita Terenzio in latino e Goethe in tedesco, usa locuzioni italiane, sa fare ogni cosa immaginabile, anche dire "se lo sarà meritato!", riferendosi al cadavere, dopo averlo visto per la prima volta. «La verità può essere raggiunta solo attraverso una analisi dei fattori psicologici implicati in un crimine e riferiti ad un singolo individuo. Le sole vere prove sono psicologiche, non materiali.» Questa sferzata di metodo, che porta alle estreme conseguenze quelli di Poirot e Rouletabille, è un altro fondamentale apporto dell'investigatore-dandy, che ci invita per la prima volta ad affrontare un delitto, parole sue, non come se fosse stato concepito da un semi-idiota.
Ma sprazzi di humor caustico non bastano a sopperire a una narrazione lenta e soporifera. 
Per fortuna Van Dine, o il suo inconscio, si renderà presto conto dei limiti di questo acerbo, freddo e calcolato romanzo. "Abbiamo scherzato - disse - ora iniziano i capolavori".
Per fortuna.
In Italia è famoso in quanto inaugura i Libri Gialli Mondadori, nel 1929. Ma è stato più volte ritradotto nel corso del tempo. Le migliori restano quelle di Pietro Ferrari.

lunedì 14 aprile 2014

The Four Just Men (I quattro giusti, 1905) - Edgar Wallace





Nell'Anno Domini 1905, Edgar Wallace, uno tra i più popolari autori di polizieschi di sempre, fa il suo trionfale esordio nel mondo della letteratura gialla. Lo fa, sorprendentemente, con una Camera Chiusa. Certo, non siamo di fronte ad un pure-puzzle complesso o a un delitto impossibile di chissà quale fattura, ma è interessante che Wallace, nella sua opera prima, allestisca una camera chiusa, in un periodo storico in cui questo espediente non era ancora così frequente, tra gli autori di polizieschi. La trama dispiegata in questo romanzo, che lo distacca immediatamente dalle lineari strutture di enigma-indagine-risoluzione, non è nuova: non abbiamo un delitto iniziale, un investigatore classico né vi è un assassino da scoprire, ma degli eroi vendicatori uniti contro le falle della giustizia degli uomini (secondo un modello che va da Robin Hood a La primula rossa). Ce ne parla bene Mauro Boncompagni, che lo introduce  nello Speciale Giallo Mondadori 69, dell'aprile 2013: questo è infatti il primo dei sei libri imperniati sulle figure dei cosiddetti Quattro Giusti (il quarto muore poco prima che la storia cominci, difatti sono costretti a trovare una recluta), spietati vigilantes senza scrupoli, pronti ad uccidere nel caso le loro richieste non vengano esaudite. Ma non sono spinti da motivazioni monetarie o di potere, bensì da un esclusivo senso di giustizia: vogliono farla pagare a chi, per propria scaltrezza o per errori giudiziari, è riuscito a sottrarsi alla legge. La loro etica è incorruttibile: non uccidono a sangue freddo, ma solo dopo aver ripetutamente messo in guardia le loro vittime, forti di una superiorità intellettuale che gli permette, ogni volta, di superare gli ostacoli più difficili. Il loro scopo è quello di mantenere un equilibrio sociale, e non a caso la maggior parte dei loro nemici si trova nei Palazzi di Potere. Come il ministro degli esteri che compare in questo primo romanzo, condannato a morte dai Giusti in quanto favorevole ad una legge volta a rimpatriare esponenti politici stranieri, la cui colpa è quella di difendere all'estero quei principi di libertà che nel loro paese non possono nemmeno pronunciare. Sono dei VperVendetta ante litteram, «dei Robespierre incorruttibili che non arretrano di fronte a nulla, ma sono anche degli smascheratori di un malcostume di cui i potenti di ieri e di oggi non riescono mai a liberarsi»[1], invischiati tra tangenti e corruzione. 
La storia, tra minacce e imprevisti, si muove con leggerezza, sino all'attuazione, nelle ultime pagine, del delitto, in una camera chiusa dall'interno e sorveglia da una fitta schiera di poliziotti. Nessuno è entrato e nessuno è uscito, e non si capisce nemmeno come il Ministro possa essere morto. 
Assassinio e risoluzione occupano all'incirca le ultime 15 pagine di un romanzo breve ma intenso, la cui intenzione primaria non era certamente quella di porre al centro una situazione inspiegabile. Wallace mostra da subito le caratteristiche che lo renderanno popolare: la sua narrazione è godibile, gustosa, frizzante, non priva di ironia e a tratti serrata, pur tutt'altro che raffinata. 
Ovviamente parte dei contenuti e degli espedienti appare oggi rozza, prevedibile e forse un po' ruffiana, ma all'epoca le cose stavano diversamente: mi riferisco alla capacità di travestimento di uno dei Giusti, capace di riprodurre le fattezze di chiunque, come faranno Fantomas e Diabolik, ma anche certi espedienti romanzeschi che oggi farebbero solo tenerezza, ma al tempo si dimostravano invece particolarmente efficaci per creare atmosfera. Inaccettabile, in questo senso, l'incomprensibile tenacia del ministro, a cui basterebbe lasciar perdere questo disegno di legge per salvarsi la vita, o ancora la sua volontà di rimanere in stanza, esclusivamente solo, sino alle 20, ora in cui i Giusti ne hanno previsto la morte.
Ingenuità a parte, a più di cento anni di distanza, questo romanzo si legge ancora con piacere e dimostra il perché Wallace è stato così popolare. L'idea di Alberto Tedeschi, che nella prefazione al romanzo in edizione Oscar, lo definisce forse "il più grande autori di polizieschi di sempre", rende bene la considerazione che questo genere letterario possedeva in quel periodo (parliamo dei primi anni Settanta). Nessuno, oggi, definirebbe Wallace in questo modo: troppo confusionario, troppo frettoloso, troppo prolifico. Ma anche pieno di inventiva, spigliato, divertente e, per certi versi, geniale. 
La camera chiusa in questo romanzo occupa poco spazio, ma nella sua semplicità colpisce per ingegno ed imprevedibilità. Wallace ne era così soddisfatto che eliminò inizialmente la soluzione dal libro, sostituendola con un modulo in cui invitava il lettore a risolverla. La ricompensa? Un'enormità, 500£. Il libro ottenne una fama straordinaria, ma Wallace finì quasi sul lastrico. Lezione imparata, forse.
Un esordio felice dunque, con tante imperfezioni e ingenuità, ma che arriva dritto al dunque e non pretende di essere qualcosa che non è.
La traduzione italiana, quella di Gino dall'Armi, degli anni Settanta, dovrebbe essere integrale, ma inizia a sentire il peso degli anni. La Polillo, prossimamente, sembra orientata a ripubblicare questo romanzo, ma non si sa ancora se con una nuova traduzione. 


1 M. Boncompagni, Introduzione a AA.VV, I detective dell'Impossibile, Milano, Mondadori, 2013


martedì 8 aprile 2014

The Rasp (Campana a morto, 1924) - Philip MacDonald, l'esordio di un Genio





Il periodo immediatamente successivo alla fine del primo conflitto mondiale è particolarmente vibrante per la storia del poliziesco: iniziano ad esordire alcuni tra i più grandi Maestri del genere, chi per motivi economici e finanziari, chi per semplice diletto. Prima la Christie, poi Crofts, Milne, Sayers, Berkeley, Van Dine etc. 
Ma nel 1924 sarà la volta di uno dei più geniali, inventivi e terribilmente sottovalutati autori inglesi dell'intero secolo: Philip MacDonald. Nato a Londra nel 1900, fa il suo esordio a 24 anni con questo whodunit puro, che trae i propri modelli da Bentley (le ambientazioni), Freeman (lo studio e la disseminazione di indizi), Crofts (gli alibi inattaccabili), oltre ai già citati Christie & co.
Questo romanzo non è un capolavoro, ma è un'opera prima promettente, non priva di spunti. In Italia viene tradotto negli anni 70 da Frances Dunitz con l'incomprensibile titolo Campana a morto: la versione che circola ancora oggi è decisamente invecchiata, ma leggibile.
Un importante personaggio politico britannico viene ritrovato ucciso nel suo studio, con la testa orribilmente fracassata da una sorta di attizzatoio (la rasp del titolo). Il redattore del giornale "Il gufo", con lo scopo di indagare e avere notizie, chiede aiuto all'amico Anthony Gethrin, ex colonnello ed agente segreto. Sui 30 anni, di bell'aspetto ma leggermente zoppo e attraversato da una feroce crisi esistenziale, Gethrin vede questa occasione come il modo per uscire da questo tunnel depressivo. Per questi versi somigliante a Holmes (con le sue crisi dovute alla mancanza di stimoli intellettuali), l'ex colonnello si avvicina più ad un Wimsey: tuttologo, matematico ma artista, calcolatore ma umanista, vigoroso, forte, sicuro. Peccato che si innamori follemente di una delle ragazze sospettate, che minerà le sue certezze fino quasi allo sgretolamento, non prima di aver risolto il caso. 
Impossibile che MacDonald non abbia in mente la storia d'amore (?) con protagonista Philip Trent in Trent's Last Case di Bentley (La vedova del miliardario, 1913), ma in The Rasp assume tutta un'altra connotazione: più passionale, meno parodica, molto meno sghignazzante, certamente più zuccherosa e melodrammatica, che ha fatto inevitabilmente  invecchiare il romanzo più del dovuto.
All'interno di un genere dai contorni frastagliati e non ancora codificati, MacDonald entra a piedi uniti, sceglie la formula del whodunit gestendola con sapienza, con una mano ampiamente più ferma di quello che ci si aspetterebbe da un esordio. 
Ma i difetti e le incongruenze sono notevoli: i personaggi vivono di stereotipi, l'intreccio mantiene una instabile solidità ma gli indizi sono spesso di clamorosa ingenuità e certe spiegazioni sfiorano l'assurdo. La soluzione è logica e coerente, ma il numero di pagine con cui viene spiegata (come sottolinea Nick Fuller per GAdetection[1]) è eccessivo, vista la semplicità dell'enigma. 
L'elemento più riuscito è certamente il modo in cui Gethrin smonta un alibi apparentemente inattaccabile, come era solito fare, in questo periodo, quel brillante artigiano dal nome Freeman Wills Crofts.
Nel complesso dunque, questo romanzo pone delle buone basi per il futuro: MacDonald mostra piglio narrativo, la storia scorre bene e il tutto si legge in qualche ora, con leggerezza. 
John Dickson Carr, nel suo The Greatest Game in the World (1946), lo inserisce inizialmente come uno dei suoi dieci polizieschi preferiti, per poi sostituirlo (senza dubbio giustamente) con Murder Gone Mad (La morte è impazzita, 1931).
Barzun e Taylor, i due esigenti critici di A Catalogue of Crime, parlano di un romanzo che ha fatto scuola, pur all'interno di un palinsesto poliziesco oggi prevedibile[2]. L'opera non è apprezzata invece dal critico francese Roland Lacourbe: insieme agli esperti belgi Fooz, Soupart e Bourgeois, inserisce The Rasp nel recente volume 1001 chambres closes, definendolo poco accattivante, poco inventivo e stereotipato [3]. Al di là del discorso se sia o meno un delitto impossibile (io credo di no, anche se sotto la finestra aperta non sono state trovate impronte), le critiche sono ineccepibili, ma colpiscono una sola faccia della medaglia e non tengono conto di alcune considerazioni da non sottovalutare. Mi sembra chiaro che, paragonato alle innovazioni contenute nei successivi romanzi dell'autore, quest'opera appaia scontata, un po' banale, ma è proprio per questo che è importante affrontare l'opera omnia di un autore partendo dagli inizi, così da essere privi di pregiudizi o possibilità di comparazione che offuscano il giudizio.
In un momento letterario non ancora preciso e coerente, The Rasp rappresenta un passo in avanti verso la presa di coscienza dei pregi (e limiti, come sostengo sempre) del whodunit. Un avanzamento non ancora solidissimo, ma importante per l'evoluzione del genere. Qualche anno più tardi, con The Maze (Il labirinto, 1930), MacDonald darà scacco matto al whodunit: siamo di fronte al non plus ultra di un genere, alla pietra tombale, come lo sono stati, nel cinema, Hard Boiled di Woo per il noir Hongkongese o Il grande Racket di Castellari per il poliziesco italiano. 
Muovendosi all'interno di tutte le forme del poliziesco, MacDonald sarà uno dei pochi autori a concepire romanzi ogni volta diversi, percorrendo terreni ancora mai battuti. Ancora oggi, un romanzo come Murder Gone Mad (La morte è impazzita, 1931) fa impallidire gran parte dei thriller basati sul tema del serial killer. 
Il critico Julian Symons, inserendo MacDonald tra i "farceurs", gruppo eterogeneo di autori secondo lui minori, contribuirà alla svalutazione del nome dell'autore. Un affronto letterario, prima che un mastodontico insulto alla carriera di un Maestro.
Come Giorgio Vasari, che stroncando gli affreschi del coro di San Lorenzo dell'ultimo Pontormo (perché in odore di eresia) genererà la sua successiva distruzione, così le critiche di Symons hanno creato una barriera critica, per lui e per altri grandi scrittori, che è necessario abbattere.
Chi non lo conosce, si segni il nome di Philip MacDonald, un uomo che ha cambiato per sempre il poliziesco.


1 http://gadetection.pbworks.com/w/page/7932167/The%20Rasp

2 J. Barzun, W. H. Taylor, A Catalogue of Crime, Harper & Row, 1989, p. 365
3 R. Lacourbe, Bourgeois, Fooz, Soupart, 1001 Chambres Closes, Semper AEnigma, 2013, p. 341