venerdì 28 marzo 2014

The Layton Court Mystery (Delitto a porte chiuse, 1925) - Anthony Berkeley, Il Whodunit al Potere



Anthony Berkeley, tra i più importanti ed innovativi autori britannici della Golden Age, esordisce con questo romanzo, nel 1925. Pubblicato in maniera del tutto estemporanea, principalmente come regalo per il padre, appassionato lettore di polizieschi, vede anche la prima apparizione del bizzarro Roger Sheringam, protagonista della maggior parte dei romanzi dell'autore.
Come il libro di Malvaldi, di cui abbiamo appena parlato, anche questo è un testo sostanzialmente parodico: Berkeley si prende giustamente poco sul serio e gioca con gli stereotipi e le macchiette del genere, sul modello del Trent's Last Case (La vedova del miliardario, 1913) di Bentley.
Già dal titolo, che fa il verso a Christie (Styles Court), ci immergiamo nelle placide e apparentemente sonnolente campagne inglesi: il ricco Victor Stanworth ha invitato a Layton Court, una residenza di campagna da lui presa in affitto, un ristretto numero di ospiti, fra cui lo scrittore Roger Sheringham. Il tranquillo svolgimento della vacanza viene interrotto quando, un mattino, all'interno della biblioteca viene ritrovato il corpo di Stanworth, ucciso da un colpo di pistola alla fronte. Tutto sembra indicare la strada del suicidio: la stanza è ermeticamente chiusa dall'interno e l'uomo ha firmato un biglietto in cui dichiara di volersi uccidere, senza spiegarne i motivi. Roger Sheringham non è convinto e decide di condurre in autonomia l'indagine. Ad aiutarlo ci sarà l'amico Alec Grierson, un Watson apparentemente più burbero e ritroso che non mancherà di sorprendere.
Se le situazioni e gli ambienti sono quelle del poliziesco del tempo, Berkeley apporta una novità fondamentale nella figura del detective: «ho cercato di fare in modo che l'investigatore a cui è domandato il compito di risolvere il mistero si comporti come ci si potrebbe aspettare nella vita reale […] lui non è per nulla una sfinge e, di tanto in tanto, commette qualche errore. Non ho mai creduto in quei segugi aristocratici dall'occhio di falco e dalla bocca sdegnosa che proseguono nel loro silenzioso e inesorabile cammino verso il cuore delle cose senza mai sbilanciarsi o correggersi dopo aver seguito false mete». 
Questo scrive Berkeley nella dedica iniziale al padre, senza risparmiare una frecciata a Lord Peter Wimsey, che aveva esordito giusto due anni prima nella delicata penna di Dorothy Sayers. Sheringam, infatti, è tutt'altro che un lord: rozzo, villano, logorroico e impiccione, non brilla per infallibilità e nemmeno per modestia; anzi è presuntuoso oltre ogni limite, cosa che spesso lo porterà a figure ben poco eleganti. Sono almeno due gli errori madornali che compie durante l'indagine, che coincidono, non a caso, con i momenti più genuinamente divertenti dell'intero romanzo. Purtroppo negli anni a seguire Sheringam perderà un po' di questa verve, avvicinandosi a modelli più tipici.
Berkeley è anche un grande sostenitore del fair-play: «ho elencato scrupolosamente ogni più piccolo indizio nel momento stesso in cui veniva scoperto, così che il lettore potesse avere a sua disposizione esattamente gli stessi dati dell'investigatore. Questo mi sembra l'unico modo corretto per costruire un giallo», scrive. Non a caso sarà uno dei fondatori del Detection Club, che imponeva ai soci l'assoluto rispetto nei confronti del lettore.
L'autore non tradisce i suoi propositi e concepisce gran parte dell'opera come una meticolosa indagine sul campo: la ricerca di indizi e impronte, le scoperte sorprendenti, gli interrogatori che culminano nelle deduzioni giuste e in quelle sbagliate. Berkeley non tralascia nulla, anche se proprio questo rende alcune fasi eccessivamente lente e malamente allungate, in particolare quelle in cui Roger e Alec chiacchierano esaustivamente sulla vicenda, aggiungendo però quasi nulla all'intreccio. 
Una certa prolissità, derivante da una comprensibile immaturità letteraria, e qualche colpo di scena in meno del previsto finiscono per appesantire la narrazione ed evidenziano i limiti di un divertissement che si comporta troppo da whodunit, confermandone pregi e difetti. La camera chiusa occupa uno spazio ridotto, con una spiegazione meccanicistica che aggiunge poco al repertorio, ma Berkeley si concentra soprattutto sulla detection, che sostiene un intreccio ben costruito, e sulla soluzione, davvero sorprendente, che ben conclude i paragoni col modello di Bentley. Il metodo investigativo rimane ancora troppo legato ad un retaggio Holmesiano: pochi interrogatori, poca verve dialettica e troppa ricerca di dati ed indizi fisici, che in un romanzo, rispetto al racconto, dilatano pericolosamente alcuni momenti chiave.
I momenti più interessanti rimangono i tonfi deduttivi di Sheringam e alcuni battibecchi tra i protagonisti, ma anche questa indagine completamente in "tempo reale" nel complesso convince. Non mancano le ingenuità (un suicidio con un colpo sparato in piena fronte, siamo seri?) e qualche inverosimiglianza di troppo, oltre ad alcuni passaggi antisemiti che hanno contribuito all'invecchiamento inevitabile di certe situazioni letterarie. Nel finale emerge anche il tipico tema della giustizia personale applicata dall'investigatore, che in seguito sarà al centro di qualche controversa critica.
L'esordio di Berkeley promette bene, dunque, ma è ben lontano dall'essere un capolavoro. Ma occorrerà aspettare poco tempo.
Pubblicato nei Classici del Giallo 958 del 2003 con la splendida traduzione di Boncompagni, da poco è stato ristampato dalla Polillo (con titolo Uno sparo in biblioteca), che ha stranamente optato per una ritraduzione. 


martedì 18 marzo 2014

Odore di chiuso - Marco Malvaldi (2011), Un esempio di Mystery Classico contemporaneo



Se autori come Van Dine o Berkeley hanno mostrato i limiti del whodunit allo stato puro, la sua formula base è ancora vivissima, come ha scritto Barnard qualche anno fa. Non occorrono necessariamente delitti impossibili o camere chiuse: basta una certa attenzione all'enigma, un palinsesto narrativo ben architettato, un'ambientazione tipica, un investigatore accattivante, un'astuta disseminazione di indizi nel corso del romanzo ed una spiegazione finale che sia soddisfacente. I grandi insegnamenti degli autori di mystery continuano ad essere fondamentali anche per chi scrive thriller, noir o qualunque altra ramificazione del poliziesco.
Poi ci sono quegli autori che, più di altri, desiderano attingere completamente ai modelli classici, spesso con intento parodico.
Dopo la fortunata serie del BarLume, nel 2011 Marco Malvaldi decide che è ora di confrontarsi con il giallo classico, con l'intento di divertirsi e divertire. D'altronde, una volta famoso, puoi permetterti di scrivere ogni cosa. Sceglie inizialmente di ambientarlo nella placida Inghilterra di fine '800, poi cambia idea, vista la poca originalità, e opta per la verdeggiante Toscana del medesimo periodo.
Un venerdì di giugno del 1895, in un castello della maremma, si presenta un personaggio bizzarro, il baffuto Pellegrino Artusi, celebre cuoco ed autore di La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, primo manuale di cucina a varcare i confini regionali e contribuire all'unificazione del nostro paese. L'Artusi è ospite della famiglia del barone Romualdo Bonaiuti, proprio come il signor Ciceri, fotografo. Anche se nessuno sa per quale motivo sono stati invitati, i due si aggiungono al variegato gruppo familiare: ci sono due figli maschi, uno, Gaddo, spiantato poetastro con l'idolatria per Carducci, l'altro, Lapo, dedito alle donne e ai divertimenti; una figlia femmina, Cecilia, l'unica che sembra dotata di cervello pensante; ci sono poi la vecchia baronessa megera, che da buon stereotipo sembra odiare tutto e tutti, una dama di compagnia e due sorelle zitelle. Il soleggiato clima vacanziero e nobiliare si spegne quando il maggiordomo Teodoro viene ritrovato morto. In una stanza chiusa dall'interno. A risolvere l'enigma sarà proprio l'Artusi, vendicandosi così di un'accoglienza a dir poco spiacevole.
Gli elementi per una parodia del genere ci sono tutti: un variegato ma ristretto numero di personaggi dediti alla nullafacenza riuniti dentro a un castello, un investigatore carismatico ma dai tratti bizzarri, un delitto apparentemente impossibile ma dalla spiegazione razionale. Poi c'è l'indagine, con indizi, interrogatori e quant'altro.
Malvaldi scrive bene: nella prima parte mostra garbo, ironia, padronanza della lingua e piglio narrativo. Poi, purtroppo, il ritmo inizia a tendere al soporifero e i personaggi, una volta esauriti i loro momenti più divertenti, si mostrano nella loro nuda e imbarazzante piattezza. Consumato il delitto, la storia smette di avere alcun interesse, sino ad una soluzione che non stupisce.
Insomma, dal punto di vista tecnico-poliziesco, il romanzo non convince: l'intreccio è pieno di luoghi comuni, l'esposizione narrativa lenta e pesante, la spiegazione inaccettabile (un espediente del genere avrebbe fatto infuriare pure il peggior Wallace). La prima parte è anche godibile, frizzante e gustosa, pur muovendosi all'interno di strutture e situazioni viste e riviste, ma naufraga irrimediabilmente in una seconda che mostra troppa approssimazione.
Per gli addetti ai lavori, questo romanzo è "alla Agatha Christie". Si parla a sproposito di leggerezza per mascherare una evidente mancanza di tensione narrativa. Bastano un castello, dei nobili, un delitto e un investigatore per riproporre un esempio (o una parodia) del poliziesco "all'inglese"? Qualcuno ha mai letto veramente Agatha Christie?

sabato 15 marzo 2014

Presentazione

La spiegazione all'ultimo capitolo, diceva Poirot. La presentazione, di conseguenza, all'inizio.
Ci sono molti blog sul genere poliziesco, alcuni validi, altri meno. Ma tutti degni di interesse: esprimono considerazioni, pensieri, preferenze. Luca Conti aveva un blog di pregevole fattura, lo hanno ancora la professoressa Giuseppina La Ciura, Omar Lastrucci, il professor Pietro De Palma; oppure il brillante Curtis Evans, per citare un indipendent-scholar straniero.
C'è chi privilegia la letteratura, chi il cinema o le serie televisive, alcuni il mystery classico, altri l'hard boiled o il noir; alcuni prediligono recensire romanzi o film, altri invece preferiscono muoversi attraverso linee guida, sviluppare tematiche o gruppi di idee. In qualunque modo uno abbia scelto di procedere, l'importante resta la sana e fondamentale diffusione del sapere.
Nel mondo contemporaneo, quello che si sta pericolosamente perdendo, è la memoria storica, scrisse qualche tempo fa Mauro Boncompagni. Tanto che il lettore medio si trova a gridare al capolavoro, di fronte alla prima mediocre operetta che scopre in libreria. Occorre, a mio modo di vedere, ripartire dalle basi, dalle fondamenta. Cercherò, di pari passo (per quanto possibile) con le mie ricerche, di affrontare un genere letterario estremamente complesso, individuando, di volta in volta, dei fili conduttori che permettano di comprenderne i caratteri e le evoluzioni.
Non tedierò partendo da Poe (o da Voltaire o Le Fanu), ma da una analisi iniziale, il più possibile sintetica e chiara, del fondamentale momento spartiacque vissuto dal poliziesco, forse quello più studiato (e peggio compreso): la Golden Age. 
L'Italia è un paese che legge molto, ma ha poca voglia di approfondire. Il fatto che sia impossibile vedere in libreria uno straccio di testo critico decente, non può spiegarsi semplicemente con la pigrizia intellettuale degli editori. Forse, anche per questo, ci meritiamo James Patterson in cima alle classifiche.

Stefano Serafini