martedì 11 novembre 2014

The Mysterious Affair at Styles (Poirot a Styles Court, 1920) - Agatha Christie


In una zona remota del paradiso, quella in cui risiedono i grandi della storia, c’è una piccola sezione, piuttosto ristretta, in cui possiamo intravedere tre sedie. Sembra siano riservate a coloro che hanno l’invidiabile primato di essere i più letti e celebrati di tutti tempi, dalle origini ad oggi. La sedia centrale è occupata da sempre; insomma, siamo pur sempre in paradiso, e non c’è nulla che abbia venduto più copie della Bibbia. Troppo facile. Le altre due sedie, però, hanno visi umani: una è occupata da tale Shakespeare William, l’altra da una placida signora sugli 86 anni, educata in casa e affetta da disgrafia. 
Agatha Mary Clarissa Miller, uno dei più incredibili fenomeni letterari della cultura moderna, nasce a Torquay, nel Devon, nel 1890: ha venduto oltre 2 miliardi di copie ed è, con distacco, la scrittrice più tradotta di tutti i tempi (con circa 103 lingue). Insomma, caro William, ci riaggiorniamo tra circa 200 anni.
Negli anni in cui imperversa il primo conflitto mondiale Agatha lavora come crocerossina, e viene sfidata dalla sorella maggiore a scrivere un romanzo poliziesco che fosse pubblicabile. La ragazza, che all’epoca aveva meno di 25 anni, accetta, e lo conclude attorno al 1915. Invia lo scritto a svariati editori, che puntualmente rifiutano (quando si dice il fiuto..), fino a quando John Lane, londinese, decide di pubblicarlo negli Stati Uniti nel 1920. 
E’ vero che le convenzioni sono di natura concettualmente approssimative, ma se c’è un romanzo spartiacque nella storia di questo genere letterario, qualcosa capace di cambiare totalmente le carte in tavola, è proprio questo: The Mysterious Affair at Styles è il primo, geniale, tassello che spalanca le porte al periodo Golden Age. La Christie celebra la grande Inghilterra edoardiana, con sue le dimore di campagna, i  gentlemen nullafacenti, i servitori e gli arrampicatori sociali, tra chiacchiere e pettegolezzi, dove la guerra è solo un fantasma lontano, citata marginalmente in qualche discorso da pasto, come fosse un argomento ludico. Siamo nell’estate del 1916 quando un giovane Capitano Hastings, reduce dalla guerra, viene invitato dal vecchio amico John Cavendish a passare il suo periodo di convalescenza nell’Essex, precisamente a Styles. Ci sarà un delitto, ovviamente, e a risolverlo arriverà, per puro caso, un altro amico di Hastings, un ex poliziotto belga, che assaporerà una certa fortuna nel proseguo della sua esistenza letteraria.


Quando si definisce questo esordio come “sherlockiano” si commette un errore grossolano: è vero che tra i principali modelli dell’autrice c’è proprio Conan Doyle (lo si nota dai toni del prologo e dai personaggi, Poirot è un Holmes più vecchio e ipocondriaco, Hastings un Watson più sciocco), oltre ai canonici Wilkie Collins, Anne K. Green, Edmund Bentley e Belloc Lowndes (il suo vanitoso detective Hercules Popeau è molto meno famoso, al giorno d’oggi), ma nonostante questo il risultato finale non ha eguali. 
Agatha fa piazza pulita degli stereotipi tardo ottecenteschi, limando le lungaggini di Collins, i tratti feuilletoneschi di Doyle e le velleità letterarie di Bentley, giungendo, grazie ad uno stile di sottilissima semplicità, a concepire il manifesto più puro del British detective novel degli anni Venti. Come abbia fatto una ragazza così giovane è del tutto inspiegabile.
Il paragone con il passato, con quello che c’era prima e ciò che ci sarà dopo, è imbarazzante: all’interno di una trama che diverrà classica (mutuata da Bentley e dalla Green), la Christie gioca con il lettore come il gatto con il topo, con un atteggiamento di sfrontata arroganza che appare quasi degradante, lo stordisce con una quantità di indizi e piste fasulle che nemmeno tutti gli autori di lingua anglosassone messi insieme, da Poe in avanti, avevano osato inserire, costruendo un enigma che trae linearità dal disordine e organizzazione dal caos, che si fonda su espedienti mai visti prima, in una lezione di tecnica che ha ancora molto da insegnare. 
La Christie era 50 anni avanti sugli altri: manipola, gongola, si diverte, spiazza, mistifica, prima di tirare fuori dal cappello a cilindro uno dei più innovativi scioglimenti finali che io ricordi.
Come ha giustamente sottolineato Julian Symons, l'autrice si mostra innanzitutto estremamente competente in fatto di veleni (lavorava come crocerossina, certo, ma il metodo usato per uccidere è talmente ingegnoso che sarà realmente usato diversi anni dopo per commettere un delitto), ma soprattutto sfrutta una particolare disposizione giuridica inglese (“un uomo già giudicato innocente non può essere processato una seconda volta per lo stesso reato”) per ideare un espediente all’epoca del tutto inaspettato. Tanto che nel 1931, ancora una volta, il medesimo piano fu messo in atto nella vita reale.


Nonostante tutto questo, il decennio rimane un periodo di faticoso apprendistato: se escludiamo il celebre The Murder of Roger Ackroyd, la Christie si muove senza disinvoltura, impantanata tra spy story divertenti e una fuga d’amore avvolta nella nebbia. 
Per certi versi è giusto il discorso di Silvia Albertazzi quando scrive, riguardo i testi di questo periodo: “si tratta di opere fortemente conservatrici nelle strutture come nell’ideologia, le quali, lungi dall’aderire ad azzardare rivisitazione critiche che vorrebbero apparentarle allo spirito wastelandish della desolazione post-bellica, si configurano piuttosto come ineccepibili esemplificazioni narrative della della funzione narratrice e reazionaria del poliziesco teorizzata da Marjorie Nicolson” (Agatha Christie anni Trenta). 
I romanzi del suo momento più fecondo, gli anni Trenta, saranno invece da una parte “studi di vita provinciale, da villaggio, al modo di Jane Austen o Elizabeth Gaskell”, dall’altra anche manifestazioni di lucida superiorità tecnico-poliziesca. Ogni decennio porterà nuova linfa, nuove idee e diversi generi letterari: la Christie si mostrerà a suo agio nella letteratura fantastica, in quella spionistica e nel noir, celebrato in quel feroce capolavoro che è Endless Night (1967). Fosse nata almeno una ventina di anni dopo, avrebbe seguito le tracce di Ruth Rendell, senza dubbio.
Al di là di tutte queste lungaggini, Poirot a Styles Court resta, insieme a The Hound of Baskerville e The Moonstone, il più importante mystery precedente agli anni Trenta, e un magistrale esempio di come andrebbe scritto un whodunit. Ha dei difetti, certo, e non lo inserirei nemmeno tra i primi 5-6 maggiori Christie di sempre, ma è immortale. 
In Italia traduce, molto bene, Diana Fonticoli.

4 commenti:

  1. Niente da eccepire al tuo bellissimo post. Ormai per me questo romanzo, che rileggo ogni due anni circa (assieme a Sipario, dove nei primi capitoli la stessa Christie rievoca con rimpianto le atmosfere del suo primo libro) è un amico carissimo che comunque, a ogni rilettura, ha sempre qualcosa di nuovo da svelare, sempre qualche sfumatura che mi ero perso o avevo dimenticato. Il fatto che poi un romanzo così bello (per me è nella top five dell'autrice, anche se non il migliore) sia stato l'esordio assoluto dell'autrice è un qualcosa di miracoloso, di inspiegabile, anche perchè come dici anche tu a questo romanzo seguì un apprendistato lento e laborioso; le Spy story degli anni venti sono carinissime e per esse ho un vero debole, ma nulla di paragonabile a Styles court non sarà più scritto (Roger Ackroyd lo escludo perchè fa veramente storia a se) fino al Pericolo senza nome, che secondo me è un vero capolavoro e il romanzo che inaugura il filotto impressionante dei trionfi degli anni trenta; ovvero 11 anni dopo, che sono tanti. Chissà perchè l'autrice lasciò passare tutto questo tempo, al contrario di Van Dine, Queen, Carr, Berkeley e La Sayers, che ebbero un apprendistato letterario brevissimo e si imposero subito come maestri del genere.

    RispondiElimina
  2. Il problema è che quando la Christie sta scrivendo il suo prima romanzo, i vari Berkeley, Sayers e compagnia non avevano idea di cosa avrebbero fatto della loro vita. Agatha esordisce in uno scenario piuttosto sfocato: il panorama letterario era sì fiorente dal punto di vista della short story, ma di romanzieri ce n'erano pochissimi, e la maggior parte di loro non aveva certo chissà quali talenti. Il più grande di tutti era Richard Austin Freeman, a cui dedicherò presto un pezzo perché è un'altra figura davvero fondamentale.

    RispondiElimina
  3. Su Austin Freeman per combinazione ho appena pubblicato un post sul bellissimo "arsenico" davvero un romanzo memorabile,. COncordo che la Christie trovò per così dire un terreno abbastanza favorevole, ma anche La Sayers, Berkeley e Philip MacDonald, che iniziarono a scrivere tra il 1924 e il 1925, non avevano trovato una scena poi tanto mutata rispetto alla Christie; Van DIne con le sue "leggi" era vicino, ma non era ancora arrivato, anzi fu quest'ultimo che si ispirò alla Sayers e al suo lord Peter per creare Philo Vance.

    RispondiElimina
  4. La Christie inizia a scrivere intorno al 1914 circa, mentre la Sayers esordisce nel 1923. 9 anni sono tanti, e in mezzo appaiono autori importanti come Davisson Post, Milne, Fletcher, Crofts etc. Poi arrivano tutti gli altri: Sayers, Rhode, Knox, MacDonald, Berkeley etc.
    Per Van Dine il discorso è diverso: il panorama era desolante negli Stati Uniti; il suo ruolo, sia teorico che pratico, fu gigantesco (anche se con le sue ridicole regole creò solo una valanga di equivoci).

    RispondiElimina