venerdì 21 novembre 2014

Cose molto Hard Boiled: perché serve rispetto

Allo stesso modo in cui ci sono quelle canzoni, talvolta sciocche, che ci entrano in testa e lì vi rimangono per ore, spesso giorni, così ci sono quegli autori che scavano una buca nel nostro cervello per essere sicuri di non andarsene più. 
Ogni due anni e mezzo circa riprendo in mano tutto il corpus di Dashiell Hammett. Malgrado l'obiettivo sia scandagliare l'Hammett autore, magari trovando nuove chiavi di lettura, il risultato è sempre lo stesso: la vibrante, potente ma sordida prosa hammettiana, "a cui si apre il non-detto" (Minganti), così difficile da tradurre e rendere nella nostra lingua, fa breccia nella mente in modo quasi meschino, e lì vi rimane. Quando si ha a che fare con un certo tipo di scrittori la strada verso la pazzia è più spianata di quello che possa sembrare: quando passo più giorni con Hammett sento di andare in confusione, mentre rimugino continuamente sulla sua punteggiatura, i suoi strappi e le sue contrazioni narrative, all'interno di un montaggio cinematografico "di sole immagini" (Minganti).
Molto si è scritto di Hammett, forse troppo. Si è cercato forse di "incasinare le cose in maniera violenta e imprevedibile", come dice Sam Spade, per poi arrivare alla folgorante soluzione. 
Si sa, le convenzioni hardboiled nascono con Hammett e Carroll John Daly, alla metà degli anni Venti, anche se forse sarà Raymond Chandler a contribuire alla sedimentazione (e alla "romanticizzazione") del mito. Queste convenzioni saranno consegnate ad una fitta schiera di epigoni che, con qualche eccezione regalata dal talento e dall'intelligenza (Latimer, Ross MacDonald), le trasformeranno da materia viva in routine, ripetitività e noia. 
Hammett è stato un grande rivoluzionario e un grande sperimentatore, sempre concentrato sul modulare il proprio ritmo, arrotondando la prosa, tramite un labor limae incessante e dispendioso. Si innamorerà, giustamente, del proprio stile, un po' come Spade si innamorerà di Brigid O'Shaughnessy nel Falco Maltese: "Sei un angelo, e io ti aspetterò. Se invece ti impiccano, ti ricorderò sempre". 
C'è tanto Hammett, genuino, prepotente e visionario, negli anni Venti, quanto poco continuo a trovarne nel Falco. All'ennesima rilettura percepisco quasi solo i difetti: mi infastidiscono i finti pianti delle sue donne, Spade l'inespressivo e imperscrutabile sino alla cacofonia, la polizia che sembra più idiota di Lestrade e Japp messi insieme, i cattivi più fasulli di un incontro di Wrestling (Gutman scopre che ciò che ha trovato finalmente dopo 17 anni di ricerche è falso, e cosa fa, non si incazza?) e i pistoleri che sembrano somigliare tutti a Klaus Kinski quando fa il gobbo. 
Mi infastidisco perché non trovo quello che cerco; o forse non trovo ciò che la critica ha deciso che deve esserci, e invece non c'è. 
Questo non toglie che Hammett sia uno dei grandi autori americani del secolo scorso, come Chandler, come Crumley o Lansdale, come Ellery Queen e John Dickson Carr. 
E' un peccato che però i critici, contemporanei e non, riservino un trattamento diverso a questi autori. Perché la verità, e questo è il succo del mio discorso, è che si è stratificata una tale approssimazione quando si parla di mystery o detective story (o qualunque altro termine ambiguo e non pertinente si voglia usare), che non ci si fa più caso. 
E' del tutto inaccettabile, quando si affronta il tema "giallo" nel 2014, leggere ancora le solite stupidaggini sulle regole di Van Dine, il bene che trionfa sempre sul male, la letteratura consolatoria, il perbenismo e il conservatorismo, la detection e il positivismo. 
Se persisteranno a ripetere le baggianate che diceva Chandler per cercare di mettere in cattiva luce un modulo letterario diverso dal suo, non andremo mai avanti, e il mystery morirà, affogando nella sua stessa bile. Ma come si fa a dar credito a uno che diceva di non riuscire a leggere Agatha Christie e John Dickson Carr, mentre reputava grandissimi autori Freeman W. Crofts e Richard Austin Freeman. E' come se un regista oggi dicesse: "oh Duccio Tessari e Sergio Corrucci grandi maestri, ma Leone e Peckinpah proprio non riesco a guardarli!". Serve rispetto.
Quando si parla di mystery buona parte delle opere saggistiche di critici, stranieri e non, si rivelano piene di errori: come è possibile che Stephen Knight (uno degli studiosi più autorevoli al mondo) sostenga nettamente che tutti i GA writers appartengono a classi sociali elevate, sono conservatori e destrorsi (Henry Wade, i Cole, Postgate?), che commetta banali errori di attribuzione nel suo Crime Fiction,1800-2000 (lo scrittore Cecil Hare non esiste, l'assassino di Dieci piccoli indiani non è la prima vittima e Lloyd Osbourne  non è il genero di Stevenson). Il problema non è lo studioso in sé, ma la poca considerazione di chi scrive, corregge le bozze e legge, quando l'argomento è il poliziesco che qualcuno definisce "classico".
Per non parlare di Lucy Worsley, o di tutti quegli italiani che nominano Ellery Queen a fianco della Christie per rappresentare l'ideale del giallo come "dramma postumo e fittizio", fatto solo di regole e convenzioni, giustizialista e consolatorio.
Finché tutto questo persisterà, finché giallo e nero continueranno ad essere oggetti di indagini separate, finché si continuerà a dare ad ognuno una diversa dignità letteraria (d'altronde negli anni Venti la situazione era opposta), non si avanzerà mai. Sono finiti i tempi in cui Narcejac poteva permettersi di affermare che Fellini era cinema, mentre Hitchcock era mero "poliziesco". E spero che non tornino più.

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