giovedì 18 agosto 2016

Le Bête Hurlante (1934) - Noel Vindry

La Bête Hurlante rappresenta la sesta avventura del juge d’instruction provenzale M. Allou, ed è unanimemente considerato uno dei grandi capolavori dello scrittore francese Noel Vindry. Non a caso, è l’unico dei suoi romanzi ad essere stato ripubblicato singolarmente (nel 1949), dopo la prima edizione datata 1934. John Pugmire, per la Locked Room International, lo ha appena pubblicato in lingua inglese (è il secondo romanzo di Vindry da lui tradotto, dopo La Maison qui tue) con il titolo The Howling Beast. 

Se il romanzo precedente denotava qualche piccola pecca (soprattutto una certa macchinosità nella spiegazione del secondo delitto), La Bête Hurlante è invece un capolavoro assoluto, senza alcun dubbio uno dei maggiori delitti impossibili mai scritti in lingua francese.
Strutturalmente, è molto diverso dai tipici Golden Age novels anglosassoni: Pierre Herry, ricercato per omicidio, si imbatte in strada in M. Allou il quale, vedendolo in grande difficoltà fisica e mentale, lo invita a trascorrere qualche ora in una tavola calda per riprendersi dallo shock. Herry narra così una serie di situazioni incredibilmente bizzarre, che ruotano attorno a un inquietante castello situato vicino Versailles, e abitato dal cinico e violento cacciatore Saint-Luce. Quando Herry, con lo scopo di sorprendere l'amico, decide di fare visita al castello, trova Saint-Luce in compagnia dei coniugi Carlovitch, una strana coppia che non sembra avere nulla in comune con il padrone di casa. Quando, una notte, sia Herry sia Saint-Luce vengono aggrediti, e Mr Carlovitch scompare nel nulla, il dramma può iniziare. Non prima però che una misteriosa creatura inizi a ululare nella notte e a gettare scompiglio in tutto il castello e nella zona circostante.

Vindry mescola ingredienti classici da melodramma (una storia di adulterio, una statua rubata che porta con sé una maledizione) con altri che rimandano alla tradizione nera (un castello sperduto, personaggi misteriosi, creature inumane che ululano nella notte), ma tutto fa da preludio al doppio delitto impossibile che coincide con l'ultimo quarto di libro, di cui Herry è accusato. L'uomo, arrivato alla fine del suo resoconto, ha ormai perduto il senno: dopo tutto, se non è lui l’assassino, chi può aver commesso il doppio delitto? E soprattutto, come?
Il plot, complesso ma non difficile da seguire, è concepito con grande metodo e ingegno. Ogni piccolo elemento, per quanto insignificante o minore possa apparire inizialmente, trova in ultima istanza una spiegazione logica. La soluzione dell’enigma è magnifica, e possiede una particolarità eccezionale: nessuno dei personaggi interni alla storia conosce tutta la verità, e nemmeno l’assassino in persona ha in mano tutti i dettagli. Solo M. Allou è in grado di inserire ogni tassello al posto giusto, fornendo l'unica ipotesi plausibile al doppio crimine commesso. 

L’intero romanzo è narrato in forma dialogica, quasi del tutto priva di passaggi descrittivi e digressioni. La prosa di Vindry, per quanto scarna e secca possa apparire, è in realtà qui particolarmente potente ed efficace. L’autore è abile nel creare un’atmosfera di terrore sottile ma vivida e persistente. Come spesso accade nei romanzi francesi, il microcosmo dei personaggi è decisamente più importante della singola figura, per lo più appena sbozzata. Per quanto il cast di attori sia ridotto, Vindry è bravo a rendere elettrica l'interazione tra loro: il pastore solitario con il suo cane muto sono convincenti al di là del loro ruolo all'interno della trama, così come è ben resa la torbida passione che la signora Carlovitch scatena in tutti i personaggi maschili. Sebbene l’ambiente sembri quello di un mondo 'altro' — un isolato castello privo di contatti con l’esterno — la storia è credibile e realistica, e in più di una occasione si simpatizza per i personaggi.
Un clima crepuscolare e inquietante domina questo capolavoro dall'inizio alla fine. Da leggere.

sabato 16 gennaio 2016

Mystery at Friar's Pardon (1931) - Martin Porlock

Mystery at Friar's Pardon è il primo dei tre romanzi firmati Martin Porlock, uno dei tanti pseudonimi usati dal grandissimo scrittore Britannico Philip MacDonald. Il romanzo fu originariamente pubblicato nel 1931, ed è usualmente considerato uno dei capolavori dell'autore. Io, nonostante ami moltissimo MacDonald come narratore, devo dire di avere un'opinione completamente differente.
Il testo introduce la figura ricorrente di Charles Fox-Brown: orfano sin dall'età di tredici anni, si arruola per combattere durante la Prima Guerra Mondiale e riesce a fare velocemente carriera. Una volta terminato il conflitto, inizia a lavorare come gestore e amministratore di proprietà. Ed è proprio questo il compito che gli affida l'eccentrica Enid-Lester-Green, scrittrice di successo, che ha di recente acquistato la bellissima Friar's Pardon, una country-house dal passato fosco. Si dice infatti sia stata teatro di morti misteriose e inquietanti, con i proprietari trovati annegati sempre nella medesima stanza totalmente priva di acqua, sia sui vestiti sia sugli arredi. Ma la scrittrice non ha alcuna intenzione di stare a sentire queste voci, e decide di adibire propria la stanza della morte a studiolo in cui lavorare. Ben presto strani avvenimenti iniziano a turbare la tranquilla e serena vita di campagna, tra oggetti che scompaiono, mani che si librano da sole nell'aria e rumori sinistri. Che si aggiri forse un fantasma capace di attraversare i muri? Quando la padrona di casa viene trovata morta annegata in una stanza sigillata dall'interno ma totalmente priva d'acqua, qualcuno inizia sul serio a pensare al sovrannaturale.
Le premesse per un capolavoro ci sono tutte. C'è una casa infestata dai fantasmi,  una forte attrazione per l'occulto e il sovrannaturale, un'atmosfera da incubo e una elettrizzante, almeno in teoria, seduta spiritica finale. Tutto questo mostra come i grandi classici della Golden Age siano tutt'altro che romanzi scritti per soddisfare meramente l'intelletto, ma siano pesantemente attraversati dalla spossessante forza del fantastico. 
Se le intenzioni sono grandiose, però, MacDonald non azzecca sostanzialmente niente. Dopo un prologo ben scritto, il ritmo inizia a bordeggiare tra il lento e il soporifero, con l'autore che impiega quasi 150 pagine per caratterizzare atmosfera e personaggi senza riuscirci. È tutto troppo verboso, superficiale e accademico per attrarre davvero il lettore, che viene degnato del delitto solo a metà romanzo. E anche quando arriva, il ritmo non cresce, la detection è piena di prolissità, il colpevole diviene alla fine facilmente intuibile e la 'finta' seduta spiritica di chiusura sfiora il ridicolo. I personaggi, inoltre, per quanto l'autore si sforzi, non convincono e rimangono tutti in superficie, la polizia fa una figura imbarazzante e il deus-ex-machina Fox-Brown è una pallida copia dei buoni detective creati dall'autore.
La nota dolente coinvolge anche la camera chiusa, all'apparenza estremamente intrigante. MacDonald ostenta la 'non-naturalità' del delitto, ma per risolverlo ricorre ad un vecchio trucco già usato anni prima da Edgar Wallace e che due anni dopo userà anche Van Dine. Preso nel suo complesso, questo trucco è puramente 'meccanicistico' e delude. Ed è, purtroppo, la ciliegina sulla torta di uno dei più frastornanti insuccessi firmati dal sempre grande Philip MacDonald.
È stato pubblicato in Italia da Polillo col titolo La villa dei delitti.

giovedì 24 dicembre 2015

The Death of Laurence Vining (Morte in ascensore, 1928) - Alan Thomas

The Death of Laurence Vining è un romanzo che il pubblico italiano aspettava da molto. Ed è bello vedere che sia stata la Polillo Editore, dopo circa un anno di silenzio, a proporlo per la prima volta, traducendolo col titolo Morte in ascensore. Il romanzo, pubblicato originariamente nel 1928 (e non nel 1924, come ha più volte scritto anche Roland Lacourbe), è ormai considerato un piccolo classico dagli amanti della Golden Age, ed è stato inserito in quasi tutte le liste dei maggiori romanzi di camera chiusa mai ideati. Non solo, perché il già citato Roland Lacourbe lo ha inserito tra i suoi 10 mystery preferiti, sostenendo in più occasioni come sia 'tra le detective stories più perfettamente costruite della storia del genere'. 
Nel suo complesso, l'opera è estremamente interessante. Sostanzialmente diviso in tre diverse sezioni (la prima, con al centro Laurence Vining, geniale criminologo dilettante che mostra la sua debordante e irritante personalità, è l'antefatto al delitto; la seconda e più corposa parte è dedicata alla detection del poliziotto del CID Widgeon; la terza è rappresentata dal diario confessionale dell'assassino), il romanzo appare a prima vista quasi una parodia. In effetti, soprattutto all'inizio non mancano momenti di marcata ironia, e ci sono diversi passaggi in cui l'autore sembra prendere in giro bonariamente la detective story tipica degli anni Venti: il poliziotto denigra l'immaginazione nel campo dell'investigazione criminale, si scaglia contro gli autori polizieschi rei di non avere la più pallida idea di cosa sia Scotland Yard e quali siano i suoi metodi, mentre è lo scrittore stesso, penetrando di forza nella storia, a sostenere come differentemente dai testi tradizionali polizieschi qui l'assassino non viene catturato né si suicida. In aggiunta a questo, alcuni aspetti della trama (il celebre criminologo infallibile che muore e l'amico-Watson della vittima che collabora con la polizia per risolvere il caso) destano più che un sospetto sulla natura del romanzo. 
Più che una parodia del genere però (più che tipica, d'altronde, negli anni Venti), questo testo sembra piuttosto cercare di allontanarsi prepotentemente dagli stereotipi del mystery degli anni Venti: e ciò è brillantemente confermato dallo stesso personaggio dell'investigatore, un duro e antipatico funzionario di polizia che a un certo punto si lamenta di dover investigare su un caso così complesso, ben diverso da quei 'country-house mystery' tipici della narrativa britannica. 
Non racconterò la trama, che è facilmente rintracciabile su internet, ma mi limito a dire che l'intreccio è estremamente lineare, e pur trattandosi di un delitto impossibile non c'è traccia di sovrannaturale, né tantomeno abbiamo subplots di rilievo. Anzi, i risvolti della trama coinvolgono i vari personaggi della storia alle prese con situazioni ed eventi che sfortunatamente non hanno nulla a che fare con il plot in sé, ma servono esclusivamente per depistare il lettore e cercare di costruire un romanzo che potremmo definire 'credibile'. Perché ciò che sta a cuore a Thomas è prima di tutto scrivere un 'bel romanzo', che tocchi qualche tema attuale e sia caratterizzato da personaggi interessanti. Altrimenti non si spiegherebbe una parte centrale che se da un lato ammicca a Crofts e Rhode (e appaia a prima vista una lezione di detection sul campo), dall'altro lato arricchisce il romanzo di eventi e situazioni che, come detto, aggiungono poco o nulla all'intreccio poliziesco.
Nel complesso Thomas non scrive male, il romanzo è scorrevole e si legge con piacere, ma i personaggi appaiono tutt'altro che memorabili, la storia d'amore abbonda di melodramma e c'è una certa secchezza di fondo che rende il testo letterariamente un pizzico arido. Questo non deve nascondere la presenza di elementi brillanti (l'idea del criminologo geniale ma insopportabile che viene ucciso ricorda Into Thin Air di Winslow e Quirk, sorprendentemente sempre del 1928), così come non manca una componente esotica stuzzicante e un marcato razzismo esibito da alcuni personaggi che Thomas sembra sottolineare con disgusto.
Nonostante alcune riserve dal punto di vista romanzesco però, come detective story siamo a livelli difficilmente raggiungibili. Thomas cerca volutamente di distaccarsi dal genere sia con gli interventi dell'autore volti a fornire contorni realistici alla vicenda, sia inserendo situazioni apparentemente scomode e attuali (adulterio, 'complessi di inferiorità' che portano alla monomania, figli in affido etc), ma avrebbe fatto meglio a concentrarsi sull'enigma. Preso come detective story pura e come più specificatamente camera chiusa, quest'opera rappresenta sicuramente una delle più geniali variazioni mai ideate e il maggior delitto impossibile pubblicato negli anni Venti. Le ultime trenta pagine, in cui l'assassino confessa il suo modus operandi, non solo ci restituiscono una spiegazione logica e inappuntabile ad un'enigma geniale, ma prendono in considerazione ogni piccolissima sfumatura di ciò che sarebbe potuto accadere se il machiavellico piano del criminale fosse fallito parzialmente. Superata la difficoltà di descrivere gli ascensori nella Gran Bretagna dei tardi anni Venti, Thomas concepisce un trucco illusionistico magistrale. A differenza di tante camere chiuse della Golden Age, dove la situazione impossibile si viene a creare per puro caso, in questo romanzo l'assassino prepara nei minimi dettagli un piano diabolico, consegnandoci forse uno dei delitti meglio congegnati e più sorprendenti della storia di questo genere letterario.

domenica 8 novembre 2015

The Beetle - Richard Marsh (1897)


The Beetle, pubblicato originariamente nel 1897, è considerato il testo più rappresentativo del romanziere Vittoriano Richard Marsh. Come molti testi coevi, come ad esempio quelli scritti da Conan Doyle, Shiel, Stevenson o Arthur Machen, questo romanzo può essere letto contemporaneamente come una detective story e come un testo gotico, possedendo al suo interno una struttura 'mystery' e un tono da puro romanzo dell'orrore. Pubblicato nello stesso anno del celebre Dracula di Bram Stoker, il romanzo di Marsh ottiene inizialmente maggior successo, e viene salutato piuttosto positivamente sia dalla critica sia dal pubblico. Siamo in un periodo dove per la prima volta il genere 'mystery' sta iniziando a maturare uno statuto personale, ma i legami con il gotico sono ancora fortissimi. Come scrive anche Haycraft, gli autori non hanno ancora un'idea precisa della distinzione tra mystery e mero romanzo del mistero, e non di rado accade che testi tardo Vittoriani appaiano 'ibridi', appartenenti ad entrambi i generi letterari. The Beetle è uno di questi, ed è un testo assolutamente interessante.
La storia è piuttosto ingarbugliata, e viene raccontata da quattro diversi punti di vista, ognuno dei quali appartenente ad un personaggio centrale del racconto. Il primo è quello di Robert Holt, sfortunato homeless che, nel disperato tentativo di trovare un'ubicazione per la notte, si ritrova nell'orribile dimora di un essere dalle fattezze inumane, che grazie al potere magnetico dei propri occhi lo ipnotizza sino a soggiogarlo. Questa creatura spinge Holt, mezzo nudo nella tormenta, a penetrare in casa dello stimato uomo politico Paul Lessingham per impadronirsi di alcune lettere d'amore scritte da Paul alla futura moglie Marjorie Lindon. A questa vicenda si intreccia quella di Sydney Atherton, inventore geniale perdutamente innamorato di Marjorie, che racconta il proprio incontro con Holt e i bizzarri avvenimenti che seguono. Il terzo narratore è proprio Marjorie. 
Al centro del romanzo c'è la figura del politico Paul Lessingham, sconvolto anni prima dall'incontro con una mostruosa setta egiziana devota all'idolatria di uno scarabeo, che riappare per distruggere la sua vita e la sua carriera pubblica. La quarta parte della storia è raccontata dall'investigatore Augustus Champnell, esperto di sovrannaturale  e personaggio ricorrente nelle storie di Marsh. Champnell, non completamente dissimile dai detective dell'occulto di Blackwood e Hodgson, viene ingaggiato da Lessingham per scoprire l'origine di questi orrori. Alla fine ci riuscirà, ma i punti interrogativi restano moltissimi.
L'intreccio è ovviamente molto complesso e difficile da raccontare. Nella sua natura intrinseca, il romanzo è un classico late-Victorian Gothic, che utilizza certe categorie scientifiche teorizzate dalla scienza positivista del tempo per ribaltarle, svelando i lati inumani e inconoscibili del mondo naturale. Molte domande, infatti, non ottengono risposta, e il laconico commento del detective nell'ultimo paragrafo è piuttosto eloquente. Marsh sfrutta numerosi elementi tipici del gotico Vittoriano (l'ipnosi come possessione demoniaca, il forte accento 'somatico' dell'orrore incarnato dal mostruoso villain, la paura per ciò che è 'altro' e proviene da fuori, la capitale inglese come calderone di orrori indicibili, la preminenza delle malattie mentali), ma la struttura del racconto e la presenza di una vera e propria indagine avvicinano il testo a una detective story.
Il risultato complessivo è però piuttosto altalenante, il testo soffre di una certa verbosità e non di rado si sfocia nel didascalico. Marsh si concentra sulla componente esteriore e somatica dell'orrore, dimostrandosi a volte incapace di suggerire il sentimento della paura senza descriverlo esaustivamente. Troviamo, mescolate nel romanzo, una setta adoratrice di Iside e devota ai sacrifici umani, donne morte che si trasformano in orribili scarabei e situazioni impossibili (verso la fine c'è anche una sparizione da una stanza chiusa dall'interno), ma il finale consolatorio appare quasi posticcio e non convince. Il primo paragrafo, bizzarro ma ben scritto, colpisce, mentre quello raccontato in prima persona dalla signorina Lindon smorza quasi del tutto la tensione. Nell'ultima parte Marsh riprende in mano le redini della storia e dimostra di sapere come costruire una buona suspense. Peccato per l'inutile verbosità di certi passaggi che spesso scadono nel melodrammatico.
Nonostante i limiti stilistici e strutturali, questo romanzo resta però una ricchissima testimonianza di un momento storico-letterario fondamentale per l'evoluzione del romanzo gotico e della crime fiction, cugini lontani ma mai davvero distanti l'uno dall'altro.

venerdì 14 agosto 2015

Through a Glass, Darkly (Come in uno specchio, 1950) - Helen McCloy

Helen McCloy, scrittrice, giornalista, critica d'arte e corrispondente dell'Europa per numerosi quotidiani e riviste statunitensi, è stata una delle maggiori scrittrici americane di romanzi polizieschi del secolo scorso. Poco conosciuta in Italia, spesso trascurata e sottovalutata, è in realtà un'autrice brillante, colta, capace di muoversi abilmente all'interno di diversi generi letterari sempre con la medesima efficacia.
Questo romanzo, molto ben tradotto da Marilena Caselli e pubblicato come Lo specchio del male (da Mondadori) e Come in uno specchio (da Polillo), è il suo più celebre e il più ristampato dell'intero corpus. È un capolavoro, denso di significati, complesso, e necessita di più di una lettura.
Faustina Crayle, giovane e mite insegnante di disegno, viene licenziata improvvisamente e senza spiegazioni dalla scuola femminile in cui lavora, dopo appena poche settimane dall'inizio delle lezioni. Su richiesta della fidanzata, amica di Faustina, lo psichiatra Basil Willing accetta di investigare su una situazione che piano piano assume connotati sempre più bizzarri. Interrogando la signora Lightfoot, la preside della scuola, Willing viene a scoprire che sia studentesse sia professoresse sostenevano di aver visto Faustina "in luoghi dove non poteva trovarsi": in più di un'occasione la giovane professoressa era stata avvistata contemporaneamente in due luoghi diversi, non di rado in atteggiamenti ai limiti dell'assurdo. È davvero il doppio di Faustina, il "doppelgänger", quello che si sta materializzando nella scuola? E chi è quella ragazza tale e quale a Faustina che è stata vista spingere giù per le scale un'altra insegnante, uccidendola, nello stesso momento in cui la vera Faustina stava parlando al telefono con la propria amica?
Through a Glass, Darkly risente in parte dello stato in cui versava il mystery dopo la seconda Guerra Mondiale: troviamo riferimenti al conflitto, alla diffidenza degli americani verso i tedeschi, ma anche a tematiche come la memoria cosciente, il subconscio, lo sdoppiamento della personalità e il sonnambulismo, a testimoniare la decisa virata verso la componente "psicologica" del mystery classico (non è un caso che il suo investigatore sia uno psichiatra, se non erro il primo nella storia del genere). Nello stesso tempo, però, McCloy si dimostra ancora saldamente ancorata a certi stilemi precedenti: la complessità del plot, la ricchezza di indizi e false piste, la misdirection, e soprattutto l'elemento fantastico. L'autrice è affascinata dall'opera di John Dickson Carr (ma anche da Le Fanu e Hodgson), e dal tema del doppio, e questo romanzo è un vero e proprio trionfo del Fantastico. Pur contenendo, alla fine, una possibile soluzione razionale, essa non convince del tutto (anche se il modo in cui l'assassino avrebbe condotto alla morte la povera Faustina è assolutamente geniale), e l'ambiguo e sospeso finale ne è la prova concreta.
Detection e fantastico si fondono in una miscela sublime, resa tale da uno stile brillante, denso e coltissimo. L'autrice è una straordinaria pittrice di volti, dalla prosa atmosferica e metaforica. Tensione sottile ma incessante, clima inquietante, meravigliosa resa dei personaggi, grande attenzione al dettaglio e ai meccanismi della paura. Imperversa il maligno in questo romanzo, ed è difficile staccarsi dal testo, che ci rapisce e stordisce dalla primissima pagina.
Celebrato da quasi tutti i grandi esperti di "locked room mystery", Through a Glass, Darkly non è una reale camera chiusa, ma rientra nel campo dell' "apparentemente impossibile". 
A me la prima parte ha sempre ricordato Suspiria, superbo capolavoro dell'horror diretto dal maestro Dario Argento nel 1977. Ma se Argento è un poeta visionario, maledetto, che ama l'accumulo, lo straniante, ed è stilisticamente tortuoso, McCloy è un architetto del fantastico, e attacca i nervi del lettore in modo totalmente differente. A tratti, però, il risultato è il medesimo. 
Del testo vi è anche una versione preparatoria, ovvero un racconto scritto nel 1948 e reperibile nel volume della Crippen & Landru The Pleasant Assassin and Other Cases of Dr. Basil Willing (2003). Sergio Angelini, nel suo bellissimo blog, parla di un racconto più snello rispetto al romanzo, privo dell’intermezzo amoroso tra Willing e Gisela e del primo omicidio, elementi che a suo modo di vedere appesantirebbero la versione lunga. Egli nota inoltre le troppe coincidenze e la farraginosità del meccanismo del primo delitto, e la debolezza del movente; dubbi accettabili, certo, a patto però che si consideri questo testo “puramente poliziesco”, cosa di cui dubito fortemente.
Tra i piaceri della vita, c'è sicuramente leggere questo romanzo, un indimenticabile gioiello del fantastico intriso di detection.

venerdì 7 agosto 2015

Illusionismo e magia nel Golden Age mystery (2015)

È stato da poco pubblicato, presso la rivista di Lingue e culture moderne dell'Università degli studi di Urbino, il mio recente articolo Illusionismo e magia nel Golden Age mystery. Per chi vuole leggerlo, qui c'è il link al testo: 

venerdì 24 luglio 2015

The Cask (1920, I tre segugi) - Freeman W. Crofts

La parola “humdrum”, letteralmente “noioso”, appare per la prima volta in The Cask dopo ben 219 pagine. Freeman W. Crofts non lo sapeva che quella parola lo avrebbe contraddistinto per sempre. È noto infatti come il critico Julian Symons, nel suo Bloody Murder (1972) abbia definito “noiosa” la narrativa poliziesca di Crofts, alla stregua di quella di John Rhode, J.J. Connington ed altri scrittori britannici della Golden Age. Symons aveva probabilmente letto poco di Crofts, ma il suo tranciante giudizio ha infangato per anni la carriera di questo brillante scrittore. È solo del 2012 infatti il saggio The Masters of Humdrum Mystery, testo in cui Curtis Evans ha riscoperto il corpus di Crofts (insieme a Rhode e Connington), mettendo in luce la straordinaria importanza che questi autori hanno avuto nell’evoluzione del genere.
Freeman W. Crofts, su tutti, è una figura capitale nella storia del mystery. Irlandese, di professione ingegnere (lavorò nelle ferrovie), scrisse The Cask, il suo romanzo d’esordio, nel 1916, durante un periodo di convalescenza da una malattia. Solo nel 1919 però decise di inviarlo alla casa editrice Collins, la più importante in Inghilterra in quel periodo. Dopo una lieve sforbiciata (il processo in tribunale), il romanzo venne pubblicato nel 1920 e ricevette immediatamente un successo di critica e pubblico eccezionale. 
Per una bizzarra coincidenza, un altro romanzo scritto qualche anno prima (intorno al 1915-1916), venne pubblicato nel 1920: The Mysterious Affair at Styles, di Agatha Christie. Non è un caso che la critica faccia riferimento al 1920 come l’anno d’inizio della grandiosa Golden Age della detective fiction: da una parte c’è l’introduzione del detective eccentrico, Hercule Poirot, alle prese con un classico country-house mystery in cui si celebra l’epoca Edoardiana; mentre dall’altra Crofts scrive quello che sostanzialmente è un police-procedural, in cui tre diversi personaggi (due poliziotti e un detective privato), investigano sull’assassinio di una donna, trovata strangolata all’interno di un barile pieno di monete. 
Questa distinzione tra i due testi è alquanto rozza, e non rispecchia le differenze reali. Il romanzo della Christie è il trionfo del bizzarro e dell’eccentrico: sono bizzarri e ambigui i personaggi (Poirot su tutti), lo è la storia stessa, così come gli indizi, tutti velati da false piste. Il modulo della Christie, per certi versi, è anti-realista. Quello di Crofts, al contrario, è iper-realista. Da Crofts si va a scuola di detection, quella vera, condotta da esperti, poliziotti di professione metodici, umani e anche fallibili. Infatti nessuno dei tre “segugi”, a ben vedere, è in grado di rispondere completamente alle tante domande che emergono dalla trama: è lo stesso assassino che confessa, prima del colpo di scena finale.
Ecco allora la grande differenza tra i due autori: la Christie si diverte a creare il suo microcosmo di personaggi, a farli agire bizzarramente, a creare situazioni al limite dello stridore, a giocare con il lettore, fargli credere di sapere, sfidandolo continuamente. In Christie è tutto gioco, sinuoso e complicatissimo. In Crofts è tutto il contrario: l’autore ricrea magnificamente il suo tempo, senza però soffermarsi troppo nella creazione dei personaggi, anche se resta bello vedere come rappresenti Parigi con gli occhi di un inglese anni Venti, con tutti questi personaggi gentili, disponibili ed educati. In Christie c’è unità di tempo e spazio, tutto è visto dagli occhi distorti di Hastings, il narratore spalla di Poirot. Crofts invece cambia continuamente location (Londra, Parigi, Bruxelles), modifica registro stilistico, sceglie tre investigatori che lavorano sul medesimo caso, facendo ad ognuno scoprire qualcosa di diverso. La Christie deve molto a Edmund Bentley, mentre Crofts attinge a Richard A. Freeman, a cui aggiunge ricchezza di dettagli e metodo 
Non c’è nulla di teatrale, di artificioso, di insolito in Crofts. Occorre studiare i movimenti dei personaggi, interrogare i sospettati, analizzare orari di treni, di aerei e di navi; occorre, soprattutto, smontare un alibi di ferro. Ed è questo quello che Crofts fa meglio di tutti: creare ad hoc un alibi a prova di bomba, che l’investigatore di turno deve smembrare col ragionamento. 
The Cask non è, nemmeno lontanamente, un whodunit, perché a nessuno interessa sapere chi sia davvero l’assassino (ci sono solo due sospettati), e non è nemmeno un howdunit, mancando delitti o situazioni impossibili. È invece un romanzo di pura detection, perfettamente elaborato, divertente ed eccitante nonostante il volume (oltre 320 pagine). Certo, a tratti può apparire leggermente old-fashion, e l’autore non manca di dilungarsi in passaggi che oggi possono sembrare poco utili, ma non ci si annoia mai, e tutto concorre alla creazione di un meccanismo quasi perfetto. È un romanzo accurato, persino nella ricreazione di un certo “parlato” dei personaggi, pieno di dettagli, ben scritto e intrigante. Non è un caso che molte opere di Crofts stiano ricominciando a essere ristampate in Inghilterra, e con ottimo riscontro di pubblico. 
The Cask, in conclusione, è una pietra miliare nella storia del genere. Quando l’ “ingegnosità”, per fortuna, era ancora qualcosa di cui vantarsi.